Il mesotelioma pleurico è una patologia tumorale che nasce dalla pleura, la membrana (mesotelio) che ricopre i polmoni e la cavità toracica. La causa principale di questa malattia è l’esposizione professionale o ambientale all’amianto, che è documentabile in circa l’80% dei casi.
DIAGNOSI
I sintomi di esordio del mesotelioma pleurico sono piuttosto aspecifici, e consistono generalmente in tosse, dolore toracico e difficoltà respiratoria ingravescente.
Spesso è presente un versamento pleurico (cioè liquido patologico nel cavo toracico), che è evidenziato da una lastra del torace, l’esame diagnostico iniziale eseguito per i sintomi sopra citati. Se è confermato il sospetto di mesotelioma, si procede con una Tomografia computerizzata del torace e dell’addome con mezzo di contrasto.
In caso di versamento questo è drenato, generalmente con una procedura di toracoscopia, che consente anche l’effettuazione di biopsie per la conferma istologica della diagnosi.
Un ruolo importante è poi rivestito dalla PET/TC (tomografia a emissione di positroni) con FDG, grazie alla quale è possibile stabilire meglio l’estensione della malattia e il grado di risposta ai successivi trattamenti.
La valutazione diagnostica e l’impostazione terapeutica di tutti i casi di mesotelioma è discussa all’interno del Gruppo Interdisciplinare di Oncologia Toracica , di cui fanno parte oncologo, chirurgo toracico, radiologo, medico nucleare, internista e pneumologo.
TRATTAMENTI
a terapia del mesotelioma è complessa e dipende da diversi fattori quali il tipo istologico (esistono 3 varianti: epitelioide, bifasico e sarcomatoide), l’estensione della malattia, l’età e le condizioni generali del paziente, e l’esistenza di eventuali ulteriori patologie quali cardiopatie, diabete mellito, ecc.
La chirurgia, per le modalità di crescita della malattia in tutto il cavo toracico, ha un ruolo tuttora discusso, ed è limitata a una minoranza dei casi.Può comportare l’asportazione più o meno estesa della pleura (“pleurectomia/decorticazione”) o anche l’asportazione in blocco di pleura e polmone (la cosiddetta “pleuropneumonectomia extra-pleurica”).
La radioterapia può essere utilizzata su aree limitate con finalità palliative per il controllo del dolore; il suo utilizzo su grandi volumi dopo la chirurgia o nei pazienti non operabili, sebbene abbia avuto notevoli sviluppi negli ultimi anni grazie ai miglioramenti tecnologici delle apparecchiature a essa dedicate, è da considerare ancora un trattamento sperimentale, visto l’elevato rischio di effetti tossici sul tessuto polmonare.
La maggior parte dei pazienti è sottoposta a terapia farmacologica con chemioterapia. Il trattamento di scelta di “prima linea” consiste nell’associazione di pemetrexed con sali di platino (cisplatino o carboplatino); l’utilizzo del carboplatino ha il vantaggio di una migliore tollerabilità, ed è particolarmente indicato nei pazienti più anziani. Questo trattamento consente nella maggioranza dei pazienti una regressione o la stabilizzazione della malattia per un periodo che mediamente è di poco superiore ai 6 mesi, ma che in alcuni casi può essere più prolungato (nel 15-20% dei casi supera l’anno).
Tuttavia la malattia tende a ripresentarsi pressoché nella totalità dei casi, richiedendo pertanto un trattamento cosiddetto di “seconda linea”. Per questa fase della malattia non vi sono opzioni terapeutiche standard. Nei pazienti che hanno avuto una risposta prolungata alla terapia di prima linea con pemetrexed/platino si consiglia un ritrattamento con pemetrexed.
Negli altri pazienti si può utilizzare una chemioterapia, solitamente con un agente singolo quale vinorelbina o gemcitabina. Inoltre in questa fase della malattia esistono alcuni trattamenti sperimentali, che sono in corso di valutazione.
Molto importante in tutte le fasi della malattia è un’adeguata terapia di supporto per il controllo dei sintomi, in particolare del dolore toracico.
Nonostante il tumore al polmone rimanga ancora la prima causa di morte per neoplasia in Italia, la cura negli ultimi anni offre comunque maggiori possibilità di successo rispetto al passato, sia per il miglioramento della scienza medica in ogni area coinvolta (chirurgia, oncologia, radioterapia, radiologia, pneumologia, medicina nucleare, anatomia patologica), sia per la sinergia tra le diverse competenze. Fondamentale per la buona riuscita delle cure sono una diagnosi precoce, un’adeguata stadiazione e un codificato e corretto percorso nelle terapie.
Possibili cause tumore al polmone
Il fumo di tabacco è responsabile della maggior parte dei casi di tumore al polmone ed è senza dubbio il fattore di rischio più importante finora evidenziato. Anche il fumo passivo può provocare tumori nelle persone che non fumano. Maggiore è l’esposizione al fumo, maggiore è il rischio di ammalarsi. La prevenzione con l’abolizione del fumo di sigaretta è oggi l’azione fondamentale per combattere il tumore al polmone.
DIAGNOSI
Sintomi tumore al polmone
I fumatori o ex fumatori, soprattutto sopra i 65 anni d’età dovrebbero riconoscere alcuni sintomi che, anche se non specifici, potrebbero richiedere alcuni approfondimenti. I possibili sintomi che dovrebbero indurre a rivolgersi al medico curante sono: tosse ingravescente e refrattaria alla terapia medica o che cambia di caratteristiche nel fumatore, sangue nel catarro o sputo ematico (emoftoe, emottisi), dolore toracico, mancanza di fiato (dispnea). I sintomi del tumore al polmone all’esordio sono però presenti in una minoranza di pazienti; spesso infatti il tumore in stadio precoce è asintomatico e si notano soltanto segni più tardivi come un calo di peso non giustificato da diete, spossatezza diffusa (astenia), dolori ossei, sintomi neurologici, possibile espressione di localizzazioni a distanza (metastasi).
Il percorso teraupetico tumore al polmone
Nei casi di sospetto, il medico curante dopo una visita medica con un attento esame obiettivo toracico, nel dubbio clinico di tumore polmonare prescriverà una radiografia del torace standard in 2 proiezioni. Se il dubbio viene confermato, il paziente va affidato ad un medico specialista che, in collaborazione con altri colleghi facenti parte di un gruppo multidisciplinare oncologico toracico, lo avvia a un percorso diagnostico-terapeutico che prevede alcuni esami di secondo livello che consentono di eseguire prelievi (biopsie) e dare quindi un nome alla malattia, valutare la sua estensione ed intraprendere le necessarie e specifiche cure.
Diagnosi e trattamenti tumore al polmone
Gli esami principali per la diagnosi e la stadiazione sono: TAC del torace, che nel caso di una lesione polmonare sospetta deve essere eseguita anche all’addome superiore per escludere metastasi principalmente al fegato e ai surreni; broncoscopia e PET/TC. Questi accertamenti, insieme ad altri come le prove di funzionalità respiratoria, permettono di capire se la malattia è asportabile e se il paziente può essere sottoposto ad intervento chirurgico. Nei primi stadi della malattia, infatti, la chirurgia rimane la principale arma terapeutica con i migliori risultati di guarigione. Generalmente consiste nell’asportazione della porzione di polmone malata e dei linfonodi vicini (linfadenectomia ilo-mediastinica). La chirurgia ha avuto notevoli miglioramenti tecnici grazie a interventi ricostruttivi con plastiche bronchiali o resezioni a manicotto (sleeve) che permettono di risparmiare parti di polmone sano, preziose per la respirazione, rimuovendo comunque la malattia. Vi sono inoltre tecniche ricostruttive della parete toracica o ricostruzioni vascolari e tecniche mini invasive che garantiscono al paziente un minor dolore postoperatorio e una ridotta degenza ospedaliera con equivalenti risultati oncologici. Anche in presenza di singole metastasi, la chirurgia può avere un ruolo curativo e nei pazienti dove la malattia è stata riscontrata in uno stadio avanzato e non più guaribile, anche in associazione alla radioterapia, può avere un ruolo palliativo migliorando la qualità di vita. Quando la malattia non può avvalersi di un approccio chirurgico, le terapie mediche oncologiche e la radioterapia possono offrire validi percorsi di cura.
Quando la malattia si è estesa oltre il torace, la strategia ottimale nella maggioranza dei casi prevede un trattamento farmacologico rappresentato dalla chemioterapia o da altre terapie cosiddette “biologiche” (in genere farmaci assunti per via orale). L’oncologia medica contribuisce alla cura del tumore del polmone con strumenti sempre più sofisticati e con terapie che, sulla base anche della disponibilità di nuovi test molecolari che caratterizzano meglio il tumore, risultano sempre più “ritagliate” sul profilo del paziente e della neoplasia da cui è affetto. Ciò consente rispetto al passato una migliore efficacia e minori effetti collaterali.
TRATTAMENTI
Dall’integrazione delle diverse competenze professionali è nato in Marrelli Hospital un percorso in grado di accompagnare il paziente in tutte le fasi della sua malattia. Un lavoro di squadra che è stato formalizzato in un team: Gruppo Interdisciplinare Oncologico Toracico. Il paziente è così seguito dalla diagnosi alla terapia passando attraverso la stadiazione della malattia con il fondamentale supporto della radiologia e della medicina nucleare. Tutti i medici specialisti coinvolti decidono assieme la strategia terapeutica più adeguata per il singolo malato e ogni caso viene rivalutato dal team, anche dopo il trattamento qualora si rendesse necessario.
L’edema polmonare è una condizione causata da un eccesso di liquidi nei polmoni. Accumulandosi all’interno degli alveoli, le strutture in cui avvengono gli scambi di ossigeno tra l’aria e il sangue, i fluidi causano problemi respiratori.
L’accumulo di fluidi nei polmoni alla base dell’edema polmonare richiede un intervento immediato per evitare gravi complicazioni. Se non trattato può infatti portare all’aumento della pressione nell’arteria polmonare e, in alcuni casi, a una sofferenza del ventricolo destro del cuore. L’aumento di pressione si ripercuote sull’atrio destro e, di conseguenza, su diverse parti del corpo, portando a gonfiori addominali e a livello delle gambe, accumulo di liquidi intorno ai polmoni e congestione e gonfiori del fegato.
Nella maggior parte dei casi l’edema polmonare è causato da problemi cardiaci, ad esempio malattie coronariche, cardiomiopatie, problemi alle valvole cardiache e ipertensione. I liquidi possono però accumularsi anche a causa di infezioni ai polmoni, malattie renali, inalazione di fumi chimici, farmaci, uno scampato annegamento e sindrome da stress respiratorio acuto.
L’edema polmonare improvviso si manifesta con respiro molto corto e difficoltà respiratorie che si aggravano sdraiandosi, un senso di soffocamento, rantoli o sibili, ansia e preoccupazione, sudorazione eccessiva, tosse (a volte con sangue), cute pallida, palpitazioni e, in alcuni casi, dolore al petto.
L’edema polmonare cronico è invece caratterizzato da mancanza di respiro e difficoltà respiratorie mentre si pratica attività fisica, sibili, risvegli notturni per la mancanza di fiato, perdita dell’appetito, gambe e caviglie gonfie, stanchezza e, in caso di insufficienza cardiaca, un rapido aumento di peso. I sintomi dell’edema da alta quota sono mal di testa, insonnia, ritenzione idrica, tosse e fiato corto.
Spesso l’edema polmonare non è prevenibile, ma uno stile di vita mirato alla prevenzione delle malattie cardiovascolari aiuta anche a ridurne la probabilità.
DIAGNOSI
La diagnosi di edema polmonare richiede una visita medica e una radiografia al torace.
È possibile che vengano valutati i livelli di ossigeno e di anidride carbonica nel sangue e la concentrazione di peptide natriuretico di tipo B, che può indicare la presenza di problemi cardiaci.
Altri possibili esami sono:
• test per la funzionalità renale
• esami del sangue
• esami per escludere la possibilità di infarto
• elettrocardiogramma
• ecocardiogramma
• ecocardiogramma transesofageo
• cateterismo dell’arteria polmonare
• cateterismo cardiaco
TRATTAMENTI
l trattamento immediato dell’edema polmonare prevede la somministrazione di ossigeno. In alcuni casi può essere necessaria la ventilazione assistita.
A seconda della situazione è possibile che vengano somministrati:
• farmaci per la riduzione del precarico
• morfina per ridurre l’ansia e l’affanno respiratorio
• farmaci per la riduzione del postcarico
• antipertensivi
La fibrosi polmonare è una malattia cronica progressiva idiopatica o secondaria a malattie reumatologiche come le connettiviti e l’artrite reumatoide in cui il tessuto dei polmoni va incontro a progressivo danno strutturale da aumentato deposito di collagene e progressiva riduzione degli scambi gassosi.
La fibrosi polmonare rende questi organi inadeguati a scambiare l’ossigeno con l’anidride carbonica provocando difficoltà respiratoria.
Fra le possibili complicanze di questa patologia sono incluse l’insufficienza respiratoria, l’ipertensione polmonare secondaria, lo scompenso cardiaco destro e aumentato rischio di cancro ai polmoni. La fibrosi polmonare non è reversibile ma le terapie possono rallentare la progressione della malattia e ridurne i sintomi migliorando la qualità della vita.
La fibrosi polmonare può essere secondaria all’esposizione di sostanze tossiche presenti nell’aria come le polveri di silicio, fibre di asbesto, o a radiazioni, chemioterapici, farmaci come gli anti-aritmici e alcuni antibiotici.
In alternativa la fibrosi polmonare può essere associata a malattie reumatologiche come le connettiviti soprattutto la sclerosi sistemica, la dermatomiosite, le polimiositi, l’artrite reumatoide, la sarcoidosi. Quando non è possibile individuare la causa scatenante si parla di fibrosi polmonare idiopatica.
I sintomi principali della fibrosi polmonare sono la difficoltà respiratoria, l’affaticamento, la tosse secca e tutti i sintomi correlati all’eventuale malattia di base.
DIAGNOSI
Visita clinica e accertamenti come:
Spirometria e diffusione alveolo-capillare del monossido di carbonio
TAC ad alta risoluzione del polmone
emogasanalisi
ecocardiogramma
TRATTAMENTI
Nessun farmaco al momento può ridurre la fibrosi polmonare o bloccare totalmente la progressione della malattia. Tuttavia alcuni trattamenti possono migliorare almeno temporaneamente i sintomi e ridurre la velocità di progressione della malattia. Altri, invece, permettono di migliorare la qualità della vita. Fra i farmaci utilizzati per il trattamento della fibrosi polmonare vi sono i corticosteroidi e l’N-acetilcisteina. Talora sono indicati farmaci soppressori del sistema immunitario come la ciclofosfamide, l’azatioprina, il micofenolato mofetile.
L’ossigenoterapia può migliorare la respirazione in caso di ipossiemia. Può essere prescritta 24 ore su 24 o solo durante il riposo o l’attività fisica. La riabilitazione cardio-polmonare aiuta a migliorare la qualità della vita.
In alcuni casi selezionati è indicato il trapianto di polmoni.
La sarcoidosi è è una patologia infiammatoria caratterizzata dalla formazione di noduli anomali, detti granulomi, formati da tessuto infiammatorio, che può interessare diversi organi, ma colpisce prevalentemente i polmoni e i linfonodi.
Le modalità e la gravità con cui può manifestare possono essere molto diverse e variano in base agli organi colpiti e all’intensità dell’infiammazione. Rara nei bambini e negli anziani, questa patologia tende a colpire principalmente soggetti adulti e interessa entrambi i sessi.
La causa della sarcoidosi è ancora sconosciuta. È noto il legame della malattia con un’anomala del sistema immunitario che porta alla formazione di granulomi in vari organi del corpo. Gli stimoli in grado di scatenare questa reazione infiammatoria è ancora oggetto di ricerca, così come è ancora oggetto di ricerca in che modo la sarcoidosi si diffonda da una parte all’altra dell’organismo.
Dal momento che alcune popolazioni risultano più colpite di altre (ad esempio gli afro-americani), si ipotizza un probabile coinvolgimento della genetica nell’origine della malattia (che, però, non è ancora stato dimostrato).
DIAGNOSI
I sintomi della sarcoidosi variano in base all’organo colpito dalla patologia. Nel caso del polmone, che è uno degli organi più frequentemente interessati da questa patologia, avremo:
tosse secca
ridotta tolleranza agli sforzi
respiro corto
Il coinvolgimento dei linfonodi, frequente in questa patologia, si manifesta con linfonodi ingrossati e palpabili nel collo, sotto il mento, sopra le clavicole, sotto le ascelle e nella regione inguinale.
Comuni sono anche manifestazioni a carico della pelle con zone arrossate e/o rilevate e a carico delle articolazioni, che possono gonfiarsi e dare dolore.
Possono essere presenti anche sintomi aspecifici come febbricola persistente e perdita di peso.
TRATTAMENTI
Dal momento che non sono note le cause di questa patologia, non è attualmente possibile, purtroppo, predisporre strategie atte alla prevenzione dell’insorgenza della stessa.
L’esofago è il condotto attraverso cui gli alimenti e i liquidi che ingeriamo passano dalla gola allo stomaco.
Lungo 25-30 centimetri e largo 2-3 centimetri, l’esofago ha pareti foderate di tessuto mucoso e circondate esternamente da muscoli che, contraendosi all’atto della deglutizione, spingono il cibo verso il basso in direzione dello stomaco, dal quale è separato da una valvola, detta cardias, che impedisce a cibo e succhi gastrici di risalire. La mucosa che lo riveste è ricca di ghiandole produttrici di muco, che ha la funzione di lubrificare le pareti facilitando il transito del cibo deglutito.
Il tumore dell’esofago è dovuto alla crescita incontrollata delle cellule che lo rivestono internamente oppure delle cellule che formano le ghiandole che producono il muco.
I diversi tipi di tumore dell’esofago sono classificati secondo le cellule coinvolte:
l’adenocarcinoma generalmente origina nelle ghiandole muco-secernenti che sostituiscono il normale epitelio dell’esofago e colpisce più frequentemente la parte bassa dell’esofago, vicino allo stomaco
il carcinoma a cellule squamose colpisce le cellule del rivestimento normale dell’esofago e riguarda soprattutto la parte centrale del canale
il linfoma e il sarcoma sono forme molto più rare di malattia.
Il cancro dell’esofago oggi si può prevenire o guarire se diagnosticato nei suoi stadi iniziali.
L’approccio degli specialisti del Marrelli Hospital è tipicamente multidisciplinare e si basa sull’integrazione clinico-professionale di gastroenterologi, chirurghi, oncologi medici e radioterapisti, otorinolaringoiatri e pneumologi, sulla qualità dei servizi di diagnostica (anatomia patologica, radiologia interventistica, endoscopia) e di supporto terapeutico (nutrizionisti e fisioterapisti). Questo garantisce al paziente le migliori opportunità per prevenire, diagnosticare e curare la malattia.
Le cause che possono determinare la malattia sono diverse: alcune sono genetiche, altre legate alla dieta, altre allo stile di vita e altre ancora sono di origine infiammatoria.
Fattori genetici: il tumore dell’esofago, nella forma squamocellulare, compare in quasi tutti i pazienti affetti da tilosi palmare e plantare, una rara malattia ereditaria contraddistinta da ispessimento della pelle delle palme delle mani e delle piante dei piedi (ipercheratosi) e da papillomatosi dell’esofago, ovvero dalla formazione di piccole escrescenze dette appunto papillomi.
Alcol e tabacco: sono tra i fattori di rischio più rilevanti, dato che in Europa e Stati Uniti l’80-90% dei tumori esofagei è provocato dal consumo di alcol e tabacco, fumato o masticato. I fumatori hanno probabilità di ammalarsi 5-10 volte maggiori rispetto ai non fumatori, a seconda del numero di sigarette fumate e degli anni di abitudine al fumo, i cui effetti vengono moltiplicati dall’alcol. Quest’ultimo, infatti, oltre ad agire come causa tumorale diretta, potenzia l’azione cancerogena del fumo, e le persone che consumano sigarette e alcol insieme hanno un rischio di ammalarsi di cancro esofageo aumentato fino a 100 volte.
Dieta: una dieta povera di frutta e verdura e un ridotto apporto di vitamina A e di alcuni metalli come zinco e molibdeno possono aumentare il rischio di tumore dell’esofago. Una dieta ricca di grassi, e il conseguente aumento del grasso corporeo, influisce direttamente sul livello di molti ormoni che creano l’ambiente favorevole per l’insorgenza dei tumori (carcinogenesi). Il sovrappeso e l’obesità si associano spesso a reflusso gastroesofageo con un conseguente rischio di sviluppare la patologia dell’esofago di Barrett (che si riscontra nell’8-20% dei portatori di malattia da reflusso gastroesofageo).
Fattori infiammatori: l’infiammazione cronica della mucosa che riveste l’esofago aumenta il rischio. La forma più frequente è l’esofagite peptica, cioè l’infiammazione cronica della parte terminale dell’esofago causata dal reflusso di succhi gastrici acidi dovuta a una tenuta difettosa della giunzione che separa l’esofago dallo stomaco. L’irritazione cronica fa sì che, a lungo andare, l’epitelio dell’esofago (ovvero il tessuto di rivestimento interno dell’organo) venga sostituito da uno simile a quello dello stomaco, sul quale poi si può sviluppare il tumore. Questa situazione prende il nome di “esofago di Barrett” ed è considerata una vera e propria precancerosi, che richiede talvolta anche il ricorso alla chirurgia al fine di evitare la completa trasformazione dell’epitelio in maligno.
DIAGNOSI
Una buona prevenzione si basa sulla limitazione di alcol e fumo, sul controllo del peso, su una dieta ricca di frutta e verdura e sulla riduzione del rischio di reflusso gastro-esofageo (limitare caffè, alcol, sigarette, bevande gasate, alimenti grassi è un buon modo per combattere questo disturbo). La prima prevenzione è la diagnosi delle lesioni preneoplastiche che, nel caso dell’adenocarcinoma dell’esofago, il tumore più frequente oggi nei paesi occidentali, è il riconoscimento dell’Esofago di Barret e il suo trattamento con terapia endoscopica o mini-invasiva (ablazione con radiofrequenza, plastica antireflusso, etc…).
Esami di stadiazione
In caso di diagnosi certa di tumore dell’esofago, sono necessari ulteriori accertamenti al fine di stabilire il livello di infiltrazione del tumore negli strati dell’esofago e la sua eventuale diffusione ai linfonodi o ad altri organi, un processo detto stadiazione clinica. L’individuazione esatta dell’estensione e della diffusione della malattia è il passaggio cruciale ai fini della selezione del trattamento appropriato per ciascun paziente.
Gli esami di stadiazione includono:
TAC: solitamente è il primo passo nella stadiazione del tumore dell’esofago. E’ un esame radiologico computerizzato che fornisce immagini assiali del corpo umano con possibilità di ricostruzioni secondo tutti i piani dello spazio e anche tridimensionali.
Tomografia a Emissione di Positroni (PET): è un esame che richiede l’uso di una piccola quantità di glucosio radioattivo allo scopo di evidenziare le cellule tumorali in rapida crescita e di rilevare alterazioni altrimenti invisibili con altre metodiche, soprattutto utile nella diagnostica delle metastasi a distanza.
Ecoendoscopia (EUS): un particolare endoscopio dotato di una testina che emette ultrasuoni o una minuscola sonda a ultrasuoni che viene introdotta attraverso un endoscopio, permettono di eseguire un esame “a contatto” della lesione esofagea. Gli ultrasuoni penetrano in profondità nei tessuti, rivelando così la diffusione del tumore all’interno della parete dell’esofago e la presenza di ghiandole sospette. L’ecoendoscopia permette anche di effettuare biopsie di queste ghiandole vicino al tumore. L’ecoendoscopia può essere molto impegnativa da un punto di vista tecnico e produce i risultati migliori quando è eseguita da un endoscopista esperto.
TRATTAMENTI
Per curare il tumore dell’esofago si ricorre, in primo luogo, alla chirurgia. È però difficile operare le lesioni del terzo superiore dell’esofago, oppure i casi in cui il tumore ha già coinvolto gli organi vicini come trachea e bronchi. Controindicano talvolta l’operazione anche le metastasi a distanza, le condizioni generali di salute precarie oppure la presenza di altre malattie.
Nelle forme iniziali è possibile persino ricorrere alla chirurgia laparoscopica (resezione mucosale endoscopica). Nelle forme molto superficiali e iniziali, il tessuto tumorale può essere distrutto con il laser.
L’intervento vero e proprio di solito consiste nell’asportazione del tratto di esofago interessato dal tumore, di un pezzetto dello stomaco e dei linfonodi regionali, procedura chiamata in gergo medico “esofagogastrectomia parziale con linfoadenectomia regionale”. Nei pazienti non operabili la chemioterapia accompagnata da radioterapia è il trattamento di scelta, dato che la combinazione delle due cure aumenta la sopravvivenza rispetto alle singole opzioni. Nei casi operabili ma localmente avanzati o con sospette metastasi ai linfonodi può essere indicata la chemioterapia, eventualmente associata alla radioterapia, prima dell’intervento chirurgico (terapia neoadiuvante).
I farmaci più usati sono il cisplatino e il 5-fluorouracile, talvolta con l’aggiunta di epirubicina. Il 60-80% dei tumori esofagei presenta una sovraespressione di EGFR (recettore del fattore di crescita dell’epidermide), che può essere bersaglio di farmaci biologici.
Infine i pazienti in fase avanzata con difficoltà a deglutire e dolore, nei quali non è proponibile né il trattamento chirurgico né quello chemio-radioterapico, possono trarre beneficio da cure palliative che permettano un adeguato supporto alimentare.
Queste possono consistere nel posizionamento per via endoscopica di un tubo rigido in plastica, silicone o anche in metallo attraverso l’esofago che consenta il passaggio del cibo oppure la laser-terapia, che consiste nell’uso di un raggio laser diretto sul tumore per ricreare il passaggio.
Negli ultimi anni le possibilità di curare con successo il tumore al seno sono aumentate e oggi questa malattia può essere guarita definitivamente nella maggior parte dei casi, grazie alla disponibilità di nuove terapie mirate e sempre più efficaci e di tecnologie che consentono diagnosi sempre più precoci.
I principali fattori di rischio del tumore al seno sono:
• età: il rischio cresce con l’aumento dell’età
• storia personale di tumore al seno: un precedente tumore a una mammella aumenta il rischio di svilupparne un altro
• casi di tumore in famiglia (anamnesi familiare)
• fattori ereditari: le mutazioni di alcuni geni (errori di “trascrizione” del codice genetico), come i geni BRCA di tipo 1 (BRCA1) e di tipo 2 (BRCA2),
• che aumentano il rischio di tumore al seno e alle ovaie, e di p53 che aumenta il rischio di tumori mammari, cerebrali e sarcomi
• esposizione alle radiazioni
• obesità, soprattutto dopo la menopausa
• inizio della menopausa in tarda età, dopo i 55 anni
• aver avuto il primo figlio dopo i 35 anni
• terapia ormonale contraccettiva e sostitutiva per trattare i disturbi della menopausa
• abuso di alcol
• fumo
DIAGNOSI
I progressi realizzati nel settore della diagnostica consentono, sempre più spesso, di individuare i tumori della mammella prima che si manifestino come noduli o con altri segni clinicamente apprezzabili. Per arrivare a diagnosi così precoci è tuttavia necessario che le donne si sottopongano a controlli clinici e strumentali con regolarità e con la giusta periodicità: dopo i 30 anni, anche in assenza di sintomi, è bene programmare i necessari controlli periodici; sempre e a qualsiasi età in caso di segnali sospetti, come presenza di un nodulo, retrazione del capezzolo o della pelle, rossore attorno al capezzolo, tumefazione ascellare, secrezione dal capezzolo; quando il medico curanteritenga utile un controllo senologico.
Il Percorso della Paziente
Il Marrelli Hospital offre alle donne percorsi diagnostici completi, differenziati in base all’età e all’eventuale presenza di sintomi (dolore in sede mammaria, nodulo, retrazione o alterazione del capezzolo o della cute, secrezione del capezzolo, tumefazione ascellare, ecc..), di familiarità o di altri fattori di rischio.
Presso la struttura ospedaliera e gli ambulatori di senologia, che dispongono delle più moderne strumentazioni (mammografia digitale, ecografia, sistemi ago aspirati e microbiopsia etc), è possibile effettuare tutte le visite e gli accertamenti necessari per arrivare alla definizione diagnosticaanche dei casi più complessi, impostare i controlli futurisulla base del rischio individuale di sviluppare la malattia, valutare il rischio ereditario.
Il percorso è così strutturato:
• Visita senologica. Primo indispensabile passo per programmare un iter diagnostico e terapeutico personalizzato e per una pianificazione ragionata degli accertamenti strumentali e/o dei controlli successivi.
• Esami strumentali. Possibilità di effettuare tutti gli accertamenti necessari per la stadiazione della malattia: mammografia digitale, ecografia, risonanza magnetica, ago biopsia, prelievi bioptici per esami microistologici.
• Terapia. Individuazione di un programma completo di cura “su misura”, frutto di consulto multidisciplinare degli specialisti coinvolti (oncologi medici, chirurghi, radiologi, radioterapisti, medici nucleari, psicologi): intervento chirurgico; terapia farmacologica: chemioterapia, immunoterapia, terapia ormonale.
• Follow-up. Programmazione dei controlli periodici.
L’Unità di Senologia dispone di una segreteria attiva da lunedì a venerdì dalle ore 8 alle ore 12 e dalle ore 14 alle ore 16, che risponde al numero telefonico 035.4204054, a cui ci si può rivolgere per avere le prime informazioni e indicazioni nelle varie fasi dei trattamenti.
TRATTAMENTI
Le opzioni chirurgiche
Nei casi di tumore che afferiscono all’Unità di Senologia la pianificazione delle cure, dalla scelta del tipo di intervento chirurgico a quella degli eventuali trattamenti medici successivi, avviene sempre a seguito di discussione collegiale e di un attento esame delle caratteristiche cliniche e biologiche di ogni singolo caso.
Per quanto riguarda la chirurgia, vengono proposte soluzioni volte a garantire non solo un efficace controllo della malattia ma anche il miglior risultato estetico e funzionale possibile, grazie alla stretta collaborazione fra i chirurghi senologi e plastici e al ricorso di moderne tecniche di chirurgia radioguidata che consentono di individuare ed asportare correttamente anche le lesioni tumorali non palpabili e il linfonodo sentinellada sottoporre a biopsia in sede intraoperatoria.
Per il trattamento del cancro del seno il Marrelli Hospital dispone di diverse tecniche d’avanguardia:
• biopsia radioguidata del linfonodo sentinella. Questa tecnica ormai sostituisce la dissezione ascellare (asportazione chirurgica di tutti i linfonodi ascellari) nella stadiazione del carcinoma mammario. In particolare l’Unità di Senologia utilizza un’innovativa metodica biomolecolare
– tecnica OSNA, One Step Nucleic acid Amplification
–Amplificazione in singola fase degli acidi nucleici
– che riduce i tempi per l’esame del linfonodo sentinella durante l’intervento di asportazione del tumore e consente, nel caso si rilevasse la presenza di metastasi, di eseguire immediatamente la dissezione ascellare evitando così alla paziente un secondo intervento chirurgico.
• interventi chirurgici radioguidati per i tumori non palpabili: si tratta di una tecnica che prevede la localizzazione anticipata del tumore (il giorno prima dell’intervento) sotto guida ecografica o stereotassica.
• quadrantectomia: asportazione del tumore circondato da un margine di tessuto sano
• mastectomia: rimozione dell’intera mammella, con o senza ricostruzione.
• mastectomia con conservazione dell’areola e del capezzolo con valutazione istologica intraoperatoria del tessuto retroareolare.
Chirurgia oncoplastica
La Chirurgia Plastica in ambito oncologico mammario viene utilizzata negli interventi conservativi e ricostruttivi dopo una mastectomia. Nella chirurgia conservativa oncologica, le principali tecniche di rimodellamento estetico non fanno uso di protesi e garantiscono una maggiore radicalità e un miglior risultato estetico; spesso si eseguono interventi bilaterali a garanzia di una migliore simmetria mammaria.
Anche nel caso di mastectomia, la ricostruzione è quasi sempre immediata, tramite inserimento di espansore o protesi definitiva. Quando è necessario, vengono utilizzati lembi muscolo-cutanei.
Trattamento adiuvante o precauzionale. Che cosa è?
Dopo un intervento chirurgico al seno per la rimozione di un tumore, la domanda che si pone qualunque donna è: tornerà il tumore? Anche se le possibilità di averlo sconfitto sono molto elevate, non è possibile offrire una garanzia assoluta.
Pertanto molto spesso si consiglia alla paziente, dopo l’intervento chirurgico, di seguire una cura definita ” adiuvante” o “precauzionale” con l’obiettivo di consolidare nel tempo il buon risultato dell’operazione chirurgica, dando quindi una maggiore garanzia di una completa guarigione.
La terapia adiuvante del carcinoma mammario radicalmente operato può essere considerato uno dei maggiori successi in oncologia negli ultimi trent’anni. Infatti, nonostante il costante aumento dei casi di tumore al seno, la mortalità nell’ultimo decennio è diminuita sensibilmente non soltanto per effetto della diagnosi precoce attraverso programmi di screening, ma anche per l’efficacia della terapia adiuvante.
Tre sono i trattamenti adiuvanti, chemioterapia, ormonoterapia e terapia biologica, proposti alle pazienti in base allo studio del singolo caso, delle caratteristiche del tumore, delle condizioni fisiche della donna, dei suoi desideri e delle sue necessità.
Una volta definito il rischio di ripresa sistemica della neoplasia mammaria attraverso l’analisi dei fattori prognostici e delle caratteristiche biologiche della neoplasia asportata (dimensioni, grado di differenziazione, stato linfonodale, stato recettori ormonali, stato di HER2-neu) viene definito il programma terapeutico adiuvante che può essere di tipo chemioterapico, ormonale e/o con farmaci a bersaglio monoclonale. Il programma valuta anche il potenziale beneficio, i possibili effetti collaterali secondari al trattamento e le preferenze della paziente.
Ormonoterapia
L’ormonoterapia viene utilizzata in presenza di tumori sensibili agli ormoni, cioè quando la crescita del tumore dipende dagli ormoni femminili: estrogeno e progesterone. Il trattamento viene solitamente prescritto dopo la radioterapia e la chemioterapia (se necessaria). Esistono vari tipi di farmaci e di solito la cura comporta l’assunzione di una pastiglia al giorno per un periodo di circa 5 anni. È stato clinicamente provato che portare a termine l’intero ciclo di cura riduce di molto il rischio che il tumore si possa ripresentare. Esistono varie classi di terapie ormonali con differenti meccanismi di azione (tamoxifene e fulvestrant) che bloccano l’attività degli ormoni estrogeni, mentre gli inibitori dell’aromatasi e gli analoghi LH-RH riducono la quantità di estrogeni prodotti dall’organismo.
Il trattamento ormonale è efficace solo in alcune pazienti, e cioè in donne che presentano tumori che esprimono positività dei recettori. La terapia ormonale viene iniziata alla conclusione del trattamento chemioterapico, nei casi in cui trovano indicazione entrambe le opzioni.
In generale per le donne con tumore mammario ormonosensibile in premenopausa si raccomanda tamoxifene per 5 anni in associazione ad analoghi di LH-RH inducendo una menopausa temporanea. Per le donne con tumore ormonosensibile in postmenopausa, invece, il trattamento di scelta include sempre un inibitore dell’aromatasi per 5 anni. E’ ancora oggetto di studio l’utilità di prolungare il trattamento ormonale oltre i 5 anni.
Terapia Biologica
Alcune donne hanno tumori le cui cellule presentano un’elevata quantità di un recettore chiamato “HER-2 neu”, attraverso il quale viene stimolata la crescita delle cellule tumorali.
Per combattere questo tipo di tumore è stato creato un anticorpo monoclonale (trastuzumab o Herceptin) che può essere combinato ad altri tipi di trattamenti. Purtroppo è minima la percentuale di pazienti con tumore alla mammella che può beneficiare di questo anticorpo monoclonale che può essere utilizzato sia dopo l’intervento chirurgico (terapia adiuvante) sia in caso il tumore si ripresenti.
Questa terapia in fase adiuvante ha dato risultati estremamente positivi per le pazienti che esprimono HER2 neu ed è in grado di ridurre in maniera molto significativa il rischio di recidiva. Attualmente l’anticorpo monoclonale creato per contrare questo recettore viene utilizzato dopo la chemioterapia e deve essere proseguito per un anno intero.
Follow up
Il Marrelli Hospital guarda con grande attenzione alla qualità di vita delle pazienti ed offre il supporto psicologico e l’assistenza riabilitativa necessaria per l’evoluzione della malattia. Tutte le pazienti trattate per neoplasia mammaria al termine dell’iter terapeutico vengono inserite in un programma di controlli ambulatorialidifferenziati per periodicità in funzione delle caratteristiche della loro malattia.
Le cisti mammarie sono le formazioni benigne del seno più frequenti nella donna. Circa un terzo delle donne di età compresa tra 30 e 50 anni ne sono affette, con una incidenza maggiore intorno ai 40 anni, mentre diminuiscono dopo la menopausa.
Le cisti alla mammella sono piccole sacche o cavità piene di liquido (ma ne possono essere anche prive) che possono formarsi generalmente prima della menopausa. Hanno bordi esterni ben definiti al tatto e sono nella maggioranza dei casi di natura benigna, ma devono essere monitorate e controllate, facendo sempre riferimento a un senologo. La loro comparsa avviene solitamente dopo i 30 anni, hanno un picco dopo i 40 anni e la probabilità della loro formazione diminuisce bruscamente dopo la menopausa. Hanno dimensioni differenti e, quando sono di volume eccessivo, è bene valutare la possibilità di esaminarne il contenuto, mediante un prelievo (agocentesi) sotto guida ecografica.
L’origine delle cisti mammarie non è del tutto chiara, ma è nota l’azione degli ormoni estrogeni. Le cisti si formano in corrispondenza dei piccoli tubicini (dotti) che trasportano il latte prodotto dalle ghiandole mammarie. ll seno è formato da una componente ghiandolare (lobuli e dotti) e tessuto di sostegno costituito da tessuto connettivo fibroso e tessuto adiposo. Le cisti possono formarsi per anomalie nella crescita della componente ghiandolare mammaria e del tessuto fibroso che le circonda, che ostruendo la parte terminale dei condotti ne causano la dilatazione fino a formare le cisti.
Le cisti al seno generalmente non causano sintomi. La manifestazione dolorosa si ha quando le cisti aumentano di volume, a volte anche nel giro di poco tempo, diventando più evidenti alla palpazione, a volte fino a raggiungere 5-6 cm o più. Si presentano come piccoli noduli discretamente mobili al tatto o possono dare, se di grandi dimensioni, deformità del normale profilo mammario. Se la parete cistica è molto tesa, e soprattutto nelle cisti di piccole dimensione, la palpazione permette di apprezzare dei piccoli nodulini, simili a piccoli acini, di consistenza aumentata.
DIAGNOSI
Il primo esame utile a stabilire la presenza di cisti è l’autopalpazione, attraverso cui la donna può verificare la comparsa di nuove cisti o la loro modificazione e segnalarlo al medico. A seconda dell’esigenza, gli esami per la valutazione delle cisti mammarie sono:
• Ecografia, che permette di valutare la natura del nodulo e la presenza di liquido, escludendo così la presenza di gettoni solidi o setti.
• Mammografia, esame che mediante l’emissione di una modesta dose di raggi X evidenzia la presenza di noduli sospetti o calcificazioni. In caso di cisti complesse, con formazioni articolate o pareti ispessite, il rischio di patologia neoplastica aumenta ed è consigliato eseguire ulteriori accertamenti più invasivi:
• Agoaspirato o agocentesi delle cisti: si tratta di tecniche che consentono di prelevare campioni di tessuto, cellule o liquido eventualmente presente nelle cisti per esaminarne la natura. L’agocentesi permette inoltre, nello stesso tempo, di svuotare le cisti più voluminose. Il siero aspirato dall’interno delle cisti viene valutato dal medico: quando appare trasparente, di colore giallo o verdognolo non è necessario sottoporlo ad indagine citologica. Il siero con tracce di sangue o impurità solide è, invece, sottoposto a esame citologico per individuare eventuali cellule anomale.
• Agobiopsia mammaria: in presenza di formazioni solide di più grosse dimensioni con eventuale vascolarizzazione intralesionale accentuata.
Il fibroadenoma è un tumore benigno che si forma più frequentemente negli anni in cui la donna è fertile. La sua massa è formata da ghiandola mammaria e dal tessuto che la circonda. Le sue dimensioni possono aumentare nel corso del tempo, soprattutto durante la gravidanza, mentre capita spesso che i fibroadenomi rimangano stabili dimensionalmente dopo la menopausa. Generalmente i fibroadenomi sono costituiti singoli, solo circa il 10-20% è bilaterale. Fibroadenomi con un volume superiore ai 5 centimetri sono chiamati fibroadenomi giganti.
Le cause dell’insorgenza di questo tumore benigno sono sconosciute. L’ipotesi è che nella sua formazione giochino un ruolo gli ormoni sessuali. I fibroadenomi si presentano come noduli isolati, duri al tatto che si muovono facilmente sotto alla pelle, solitamente indolori e dai margini ben definiti.
Non esistono comportamenti particolari per prevenire la formazione di un fibroadenoma. La diagnosi precoce può però essere favorita da controlli regolari e dall’autopalpazione del seno.
L’utilizzo della terapia anticoncezionale in presenza di fibroadenomi è ancora controbattuto. Non ci sono chiare evidenze scientifiche che controindichino l’utilizzo della pillola anticoncezionale se presenti fibroadenomi mammari. Alcuni studi evidenziano una riduzione dimensionale dei fibradenomi in pazienti che assumono contraccettivi orali.
Le donne che si avvicinano alla menopausa devono essere informate circa la possibilità che i cambiamenti ormonali favoriscano una parziale regressione spontanea, ma è altrettanto importante che le donne in menopausa tengano sotto controllo la comparsa di nuovi noduli attraverso l’autopalpazione e con lo screening mammografico, informandone tempestivamente il medico per il rischio che possa essere un nodulo tumorale.
DIAGNOSI
La diagnosi di fibroadenoma prevede:
• una vista senologica e solitamente anche una ecografia al seno che consente di distinguere il fibroadenoma da una cisti a contenuto liquido denso, cosa non sempre facile se il nodulo è di piccole dimensioni.
• mammografia e agobiopsia mammaria nei casi in cui le caratteristiche ecografiche siano sospette per carcinoma mammario.
TRATTAMENTI
In caso di fibroadenoma, se l’ecografia o la eventuale biopsia hanno accertato la natura non maligna del nodulo e se lo stesso non aumenta velocemente di dimensioni, il trattamento può essere di tipo conservativo, verificando l’evoluzione del nodulo nel tempo mediante controlli clinici ed ecografici senza nessun particolare pericolo.
Tuttavia, nel caso in cui la presenza del fibroadenoma fosse associata a dolori o altri sintomi, se le sue dimensioni dovessero aumentare sopra i 3 centimetri o qualora fossero presenti un’anomala vascolarizzazione o bordi irregolari, il medico potrebbe consigliarne l’asportazione chirurgica.
La rimozione del fibroadenoma non comporta l’asportazione del tessuto mammario circostante perché solitamente è ben capsulato, non infiltra il tessuto circostante, ma tende a comprimerlo, per cui l’intervento non lascia tracce rilevanti nella forma del seno, anche in caso di noduli di grosse dimensioni, in quanto la ghiandola si riespande spontaneamente, una volta asportato il nodulo.
L’adenocarcinoma è un tumore maligno che può interessare diversi organi, dal momento che si sviluppa dal tessuto delle ghiandole presenti in quasi tutto il corpo umano, sia in organi come la mammella o la prostata, sia sulla superficie di rivestimento di organi come i polmoni o l’intestino.
A seconda degli organi interessati dal tumore, si parlerà quindi di adenocarcinoma polmonare, adenocarcinoma gastrico, adenocarcinoma prostatico, adenocarcinoma endometriale e di altre forme di adenocarcinoma che riguardano la mammella, il colon e il pancreas. Pur mantenendo lo stesso nome, le varie forme di adenocarcinoma hanno caratteristiche e comportamento differenti e richiedono cure diverse tra di loro.
DIAGNOSI
A seconda della sede di origine dell’adenocarcinoma, la diagnosi si avvale di indagini endoscopiche (esofagogastroduodenoscopia, pancolonscopia, isteroscopia, etc.), radiologiche (RX con contrasto, TC, ecografia, RM) e di medicina nucleare (PET); talvolta queste tecniche possono essere integrate tra di loro (ad esempio ecoendoscopia).
In ogni caso, per qualunque forma di adenocarcinoma, la diagnosi di certezza deriva sempre dall’esame istologico di una parte del tessuto malato prelevato con una biopsia o con un intervento chirurgico.
TRATTAMENTO
Diversi sono i trattamenti da intraprendere per affrontare e cercare di sconfiggere l’adenocarcinoma e sono ovviamente legati a vari fattori legati al tipo di tumore, alla sua entità e localizzazione. A seconda dei casi si potrà fare affidamento su una terapia farmacologica e chemioterapica, radioterapica e chirurgica.
L’aneurisma dell’aorta addominale corrisponde a una dilatazione patologica del tratto dell’aorta corrispondente a livello dell’addome. È la forma di aneurisma dell’aorta, il più grande vaso arterioso del nostro corpo, più diffusa.
Ben tre/quarti degli aneurismi riguarda infatti questa porzione di aorta, mentre il restante quarto è localizzata a livello del torace. L’aneurisma è dovuto per lo più all’invecchiamento dei vasi, con conseguente indebolimento della parete arteriosa provocata dall’aterosclerosi, cioè dalla formazione di placche all’interno delle pareti del vaso, che impediscono il regolare scorrere del sangue al loro interno. Altre cause sono l’ipertensione arteriosa e il fumo di tabacco.
Di solito l’aneurisma dell’aorta addominale non presenta sintomi fino al verificarsi della rottura dell’aorta, in seguito alla sua eccessiva dilatazione. In particolare, tale rischio può essere già corso quando il suo diametro diventa di 5 cm, ma soprattutto quando esso supera i 6 o, addirittura, i 7 cm.
DIAGNOSI
Può capitare che l’aneurisma all’aorta addominale provochi forti dolori a livello della regione lombosacrale o una forte pulsazione a livello dell’addome. Ma sono casi rari: molto più spesso l’esistenza di un aneurisma viene confermata attraverso controlli diagnostici effettuati per altri motivi, attraverso dolori verificati alla palpazione o con la scoperta di un “soffio” udibile dal medico in corrispondenza del tratto di aorta in cui si è verificato l’aneurisma.
Questo tipo di aneurisma può essere individuato anche e soprattutto attraverso visite specialistiche effettuate con l’utilizzo di ecografia, TAC e Risonanza magnetica nucleare.
TERAPIA
La rottura, imminente o avvenuta, dell’aorta addominale è considerata un’emergenza di tipo chirurgico. Bisogna tenere in considerazione il fatto che le persone che risultano essere colpite da aneurisma aortico addominale sono spesso affette da arteriosclerosi generalizzata, per cui prima di effettuare l’intervento chirurgico è necessario verificare lo stato del sistema cardiovascolare in generale. L’intervento è consigliato per tutte le situazioni in cui il diametro dell’aorta supera i 5 cm.
Con l’intervento chirurgico, che può essere di tipo tradizionale ma anche di tipo endovascolare, viene rimossa la sacca aneurismatica e viene posizionato un condotto in materiale sintetico.
La celiachia è la forma di intolleranza permanente al glutine molto diffusa, tanto da coplire almeno 1 italiano su 100. Il glutine è una sostanza proteica che si trova in molti alimenti, dal frumento ai cereali come orzo, farro, avena, segale e malto. La celiachia è una patologia di origine genetica, cioè è presente in un soggetto fin dal momento della nascita ed è un’intolleranza che provoca la distruzione dei villi intestinali dell’intestino tenue, organi essenziali per l’assorbimento dei nutrienti. La celiachia causa problemi di natura gastrointestinale, che vanno dal dolore di stomaco alla diarrea, dalla stipsi alla flatulenza, dalla dispepsia (dolore nella zona dell’epigastrio), alla distensione addominale.
DIAGNOSI
La celiachia può essere individuata grazie a una serie di esami:
anamnesi ed esame obiettivo del paziente: in questa fase il medico ricerca, anche con la collaborazione del paziente, i sintomi propri della celiachia. Nei bambini tali sintomi possono essere affiancati da “segnali” quali ritardo puberale, bassa statura, perdita di peso e anemia;
biopsia duodenale: è un esame invasivo, eseguito tramite esofagogastroduodenoscopia, con l’utilizzo, cioè di un tubicino flessibile dotato di telecamera che viene introdotto dalla bocca e viene fatto scendere attraverso l’esofago e lo stomaco, fino al primo tratto dell’intestino, dove vengono prelevati piccoli campioni di mucosa destinati a essere analizzati in laboratorio. Nel caso in cui i villi risultino appiattiti, la diagnosi praticamente certa è quella dell’esistenza della celiachia;
ricerca di specifici anticorpi o autoanticorpi: attraverso analisi del sangue viene testata la presenza di particolari anticorpi. Se questa è superiore alla norma è probabile ci sia celiachia.
TERAPIA
L’unica terapia in grado di garantire al celiaco una guarigione perfetta è l’osservazione di una dieta in cui sia escluso il glutine.
Per fare questo occorre, su indicazione del proprio medico, eliminare dai propri pasti molti alimenti, tra i quali: il pane, la pasta, la pizza, i biscotti.
Per ottenere risultati, il glutine va eliminato del tutto, è necessario quindi evitare di assumerne anche solo piccole quantità.
La cirrosi biliare primitiva è un’infiammazione cronica delle vie biliari che colpisce maggiormente le donne tra i 40 e i 60 anni.
Le cause sono sconosciute ed è una malattia spesso asintomatica nella fase iniziale. Successivamente alcuni sintomi possono essere stanchezza, prurito, l’ittero, la secchezza degli occhi e della bocca.
DIAGNOSI
La diagnosi della cirrosi biliare primitiva viene fatta sulla base dei sintomi, degli esami del sangue, transaminasi,fosfatasi alcalina e gamma GT in particolare, della ricerca degli anticorpi (ANA e AMA), di una ecografia e della biopsia epatica.
TERAPIA
La terapia è farmacologia e il paziente può essere trattato con acido ursodesossicolico ma non esiste una terapia specifica.
Possono essere utilizzati anche altre tipologie di farmaci in presenza di osteoporosi e vitamine liposolubili.
Nel caso in cui invece la malattia sia in fase avanzata, può essere preso in considerazione il trapianto di fegato.
L’epatite cronica autoimmune è una infiammazione progressiva del fegato causata da una reazione del sistema immunitario che non riconosce il fegato. E quindi lo combatte.
Non è ancora stato scoperto perché questo accada. L’epatite cronica autoimmune colpisce soprattutto le donne (70%), in genere prima dei 40 anni, ma esiste anche una forma che colpisce gli adolescenti e i bambini. La malattia può essere associata anche ad altri quadri di autoimmunità. Sulla base del tipo di autoanticorpi l’epatite autoimmune può essere classificata come tipo I o tipo II.
I sintomi più comuni di questa patologia sono stanchezza, dolori addominali e articolari, ittero, prurito.
DIAGNOSI
La diagnosi dell’epatite cronica autoimmune viene fatta sulla base dei sintomi, degli esami del sangue, gammaglobuline e aminotransferasi in particolare, della ricerca degli autoanticorpi (ANA, SMA e LKM1) e della biopsia epatica.
TERAPIA
La terapia è legata allo stadio della malattia ed è farmacologia. Il paziente è trattato con corticosteroidi e azatioprina che sopprimono o riducono l’attività reattiva del sistema immunitario. Possono essere utilizzati anche altre tipologie di farmaci se corticosteroidi e azatioprina non danno gli effetti sperati, come ciclosporina e micofenolato mofetile.
Se l’epatite cronica autoimmune viene individuata e trattata per tempo si hanno risultati positivi con la remissione della malattia in circa 3 anni dall’inizio del trattamento.
Nel caso in cui invece la malattia progredisca fino a trasformarsi in cirrosi o si aggravi, può essere preso in considerazione il trapianto di fegato.
I virus dell’epatite A, B, C e D sono le principali cause di epatite acuta e cronica. La diffusione delle infezioni virali e dei fattori di rischio ad esse correlati ha subito nell’ultimo decennio notevoli variazioni. Il miglioramento generale delle condizioni igienico sanitarie, la vaccinazione obbligatoria per il virus B, la vaccinazione per il virus A, la maggior attenzione in comportamenti a rischio soprattutto per la paura dell’AIDS, il miglioramento dell’igiene nelle procedure sanitarie (materiali monouso, sterilizzazione più accurata, ecc.) e lo sviluppo di test diagnostici che permettono il riconoscimento dei virus (trasfusioni sicure) hanno permesso di ridurre la trasmissione delle epatiti virali.
L’infezione da virus A causa di solito negli adulti una malattia acuta che non cronicizza. Il quadro clinico è quello di una malattia con ittero (colorazione gialla della cute) nella maggioranza dei casi, nausea e vomito, stanchezza, perdita di appetito, dolore addominale. Il periodo d’incubazione – tempo tra l’infezione e l’evidenza clinica – è compreso tra le 3 e le 6 settimane. La maggioranza dei pazienti guarisce senza particolari problemi durante il decorso della malattia. I sintomi sono più severi negli adulti rispetto ai bambini, nei quali la malattia è spesso asintomatica. Il contagio avviene attraverso il contatto oro-fecale – feci infette che contaminano alimenti.
L’infezione da virus B dell’epatite causa nei soggetti adulti sintomi simili a quelli provocati dal virus A, ma a differenza di questo virus nel 5% dei casi l’infezione cronicizza (mediamente entro sei mesi dall’inizio della malattia). Il virus B può quindi portare alla cirrosi, al tumore del fegato e all’insufficienza epatica (riduzione della funzione). Queste ultime situazioni a differenza dell’epatite cronica, che può decorrere per decenni senza che vi siano sintomi, rappresentano la fase sintomatica della malattia di fegato. Il contagio avviene per contatto di materiale infetto (sangue, fluidi biologici, strumenti infetti). La malattia viene contratta negli adulti soprattutto per via sessuale.
L’infezione da virus C cronicizza nell’80% dei casi; la malattia acuta è molto spesso asintomatica tanto che la maggior parte delle diagnosi viene fatta molti anni dopo che è avvenuta l’infezione. Anche il virus C può causare cirrosi, epatocarcinoma ed insufficienza epatica. La via di contagio è simile a quella del virus B, essendo tuttavia il C meno infettante. Il virus Delta coinfetta o superinfetta i portatori del virus B – in alcune casistiche fino al 10% circa dei casi. L’infezione cronicizza in tutti i pazienti.
L’infezione da virus D può essere trasmesso sessualmente ma, per replicarsi, necessita della collaborazione del virus dell’epatite B, di cui aggrava i sintomi.
DIAGNOSI
Per effettuare una diagnosi dei diversi tipi di epatite virale è bene consultare uno specialista che, potrà richiedere innanzitutto esami del sangue che includano la ricerca delle transaminasi AST e ALT. Si tratta di enzimi che segnalano la funzionalità epatica e si modificano in rapporto alla fase della malattia (acuta o cronica). Un’alterazione delle transaminasi rappresenta una spia del danno subito dalla cellula epatica a causa dell’infezione virale.
Potrà inoltre essere richiesta una biopsia epatica o il Fibroscan che permette di rilevare i differenti stadi della malattia: dalle prime fasi di infiammazione alla progressiva degenerazione del tessuto epatico delle epatiti croniche che possono evolvere in cirrosi e/o in tumore.
TRATTAMENTO
Epatite A Non esiste un trattamento specifico per l’epatite A; il controllo della patologia avviene soprattutto a norme preventive e di profilassi post-esposizione. Attualmente esiste un vaccino, non obbligatorio. Nei casi più gravi si può ricorrere al trapianto d’organo.
Epatite B Il controllo dell’epatite B si fonda prevalentemente sul trattamento specifico dei soggetti con epatite cronica e in fase di alta riproduzione del virus. La terapia si basa sulla somministrazione di interferone, soprattutto alfa-inferferone e farmaci antivirali. La terapia va personalizzata caso per caso e non è priva di effetti collaterali. Inoltre, non è indicata in tutti i casi.
Il consumo di alcolici peggiora l’epatite virale B.
Nei casi più gravi si può ricorrere al trapianto d’organo.
Epatite C Attualmente, l’epatite C viene trattata con interferone, ribavirina e nuovi antivirali (DAA), ma la terapia deve essere valutata dal medico sulla base dei singoli casi, anche in considerazione degli effetti collaterali che la terapia può indurre, soprattutto nei soggetti anziani. D’altra parte la terapia è controindicata in diverse situazioni, per esempio: cirrosi epatica, insufficienza renale, malattie autoimmune e altre.
Il consumo di alcolici peggiora l’epatite virale C.
Nei casi più gravi si può ricorrere al trapianto d’organo.
Epatite D Alcuni pazienti con epatite cronica D possono essere trattati con interferone-alfa. Nei casi più gravi si può ricorrere al trapianto d’organo.
L’insufficienza renale cronica è una condizione clinica che si determina quando i reni sono danneggiati ed è irrimediabilmente compromessa la loro capacità funzionale (depurazione, rimozione dei liquidi e produzione di ormoni), indipendentemente dalla malattia che ne è stata la causa.
Tali malattie possono riguardare i reni (glomerulo nefriti, nefriti interstiziali, ecc.), le vie urinarie (calcolosi), oppure i reni possono essere coinvolti in malattie che determinano un danno a tutto l’organismo (ipertensione arteriosa, diabete mellito) oppure, ancora, malattie ereditarie in cui si trasmettono dai genitori ai figli difetti di struttura di alcuni organi (ad esempio rene policistico). Quando i reni perdono quasi completamente la loro capacità di funzionare, l’organismo “s’intossica” perché i prodotti del metabolismo, i sali e l’acqua, si accumulano. Anche gli esami del sangue subiscono alcune modificazioni: aumento di azotemia (urea) e creatinina, riduzione dei bicarbonati (acidosi), aumento del fosforo, riduzione del calcio e riduzione dei globuli rossi (anemia). L’incapacità di mantenere un’adeguata depurazione si esprime in una serie di segni e sintomi chiamata uremia.
I segni e i sintomi della presenza di una possibile insufficienza renale sono: pressione arteriosa instabile, solitamente alta; nausea talvolta accompagnata da vomito; scarso appetito; comparsa di gonfiori soprattutto al volto e alle gambe con conseguente aumento di peso; disturbi del sonno e dell’umore; condizioni più drammatiche come l’edema polmonare (presenza di liquido nei polmoni) e la pericardite (infiammazione della membrana che avvolge il cuore).
DIAGNOSI
Con alcuni semplici esami del sangue (urea, creatinina, glicemia, sodio, potassio, PH, emocromo, calcio, fosforo), l’esame delle urine e l’ecografia delle vie urinarie è di solito facile fare la diagnosi di insufficienza renale. A volte è invece difficile capire la malattia che l’ha causata, e sono necessari molti altri esami. E’ fondamentale non perdere tempo, fare una diagnosi precoce.
TRATTAMENTO
È fondamentale curare la malattia che ha causato l’insufficienza renale (se possibile), e iniziare in ogni caso le cure il più presto possibile. Se si inizia troppo tardi infatti è molto più difficile impedire che la malattia porti alla dialisi. Il trattamento della pressione alta con farmaci specifici, del diabete, del colesterolo alto (e se presente dell’obesità), la riduzione del sale nella dieta, sono gli approcci fondamentali per proteggere i reni. Attenzione particolare deve essere messa all’uso di molti farmaci, che possono peggiorare la funzione renale (quali molti antidolorifici e antibiotici).
Trattamento con emodialisi
Le persone con un grado di insufficienza renale grave hanno bisogno della dialisi come terapia salvavita. Emodialisi vuol dire “depurazione del sangue”, cioè l’eliminazione di quei prodotti che un rene funzionante riesce normalmente a bilanciare e che, in questo caso, vengono accumulati nell’organismo. Con questo processo avviene anche l’eliminazione dell’acqua in eccesso e il ripristino dell’equilibrio elettrolitico che, in presenza di insufficienza renale cronica, risulta alterato.
Come si svolge una seduta di dialisi
Il sangue viene prelevato attraverso un ago di dimensioni più grandi rispetto ad un ago da prelievo e collegato ad una linea (un piccolo tubo di plastica di lunghezza variabile) che chiamiamo arteriosa. Poi, con l’ausilio di una macchina particolare detta rene artificiale, viene fatto passare attraverso un filtro che provvede a depurarlo. Il sangue “pulito” viene poi restituito al paziente attraverso una seconda linea, collegata ad un secondo ago delle stesse dimensioni, che chiamiamo venosa. La dialisi dura di solito quattro ore e viene eseguita tre volte per settimana.
Le malattie infiammatorie croniche intestinali (in inglese “IBD”, inflammatory bowel disease), comprendono il morbo di Crohn e la rettocolite ulcerosa. Si calcola che in Italia circa 200.000 persone siano oggi affette da queste patologie. Negli ultimi 10 anni la diagnosi di nuovi casi e il numero di ammalati sono aumentati di circa 20 volte. Le IBD colpiscono con la stessa frequenza i due sessi, con un esordio clinico che in genere si colloca fra i 15 e i 45 anni.
Le cause e i fattori di rischio
Le IBD sono malattie “idiopatiche” ovvero a causa sconosciuta. L’ ipotesi patogenetica prevalente è quella di una reazione immunologica abnorme da parte dell’intestino nei confronti di antigeni (per esempio batteri normalmente presenti nell’intestino). Questo squilibrio immunologico può instaurarsi per un’alterata interazione tra fattori genetici propri dell’individuo e fattori ambientali.
E’ noto che le IBD presentano una certa “familiarità”, ovvero la tendenza ad un maggior rischio nei parenti delle persone affette, ma non sono malattie ereditarie.
Recentemente è stato individuato un gene chiamato NOD2 che, se mutato, rende più suscettibili alla malattia di Crohn. Tra i fattori ambientali il più importante è il fumo che, curiosamente, predispone al morbo di Crohn ma sembra essere protettivo nei confronti della rettocolite ulcerosa.
Anche situazioni di disagio psichico (come ansia e depressione) possono essere coinvolte.
DIAGNOSI
Sia il morbo di Crohn che la colite ulcerosa sono malattie ad andamento cronico o ricorrente, che si presentano con periodi di latenza alternati a fasi di riacutizzazione. I sintomi delle due patologie sono diversi.
Per il morbo di Crohn la diarrea e il dolore addominale, soprattutto localizzato nella parte inferiore destra dell’addome (corrispondente all’ultima ansa ileale, la sede più frequente di malattia) sono i sintomi iniziali più frequenti.
La rettocolite ulcerosa invece si presenta quasi sempre con diarrea ematica (contenente sangue rosso vivo e muco commisti a feci), associata a “tenesmo” (sensazione di incompleta evacuazione) e talvolta ad anemia.
Entrambe le malattie possono avere periodi di latenza alternati a fasi di riaccensione dell’infiammazione. Quando l’infiammazione intestinale si riacutizza compaiono anche sintomi costituzionali quali febbre, dimagramento, profonda stanchezza, inappetenza. Nel tempo il morbo di Crohn può complicarsi con la formazione di stenosi (restringimenti del lume del tratto di intestino colpito fino all’occlusione intestinale), fistole (comunicazioni tra intestino e cute, o fra organi addominali) o ascessi. Queste complicanze possono richiedere un intervento chirurgico.
Le complicanze tipiche della rettocolite ulcerosa sono invece il megacolon tossico (quadro acuto di dilatazione del colon che necessita di intervento chirurgico), lo sviluppo di cancro sulla mucosa infiammata del colon.
In alcuni casi possono essere presenti manifestazioni extra-intestinali come patologie articolari, oculari, cutanee, epatiche, ecc.
Il laparocele è un’ernia che si forma su una cicatrice dopo un intervento di chirurgia addominale. È uno dei possibili inconvenienti della chirurgia laparotomica, quella tradizionale in cui il chirurgo esegue un’incisione sull’addome di alcuni centimetri.
Il laparocele è la formazione di un’ernia su una cicatrice in seguito a un intervento di chirurgia addominale. In circa il 10% delle incisioni chirurgiche praticate sull’addome, infatti, nel corso del tempo si può verificare un cedimento della parete muscolo-fasciale attraverso il quale fuoriesce il peritoneo, un sottile foglietto ripiegato su se stesso che separa gli organi interni dalla parete addominale. Questa condizione si manifesta con un gonfiore che compare in corrispondenza della cicatrice chirurgica.
I fattori che possono favorire la comparsa del laparocele sono l’età avanzata, il sovrappeso, l’obesità, una precedente infezione della ferita, tipologia ed estensione dell’incisione chirurgica praticata. Il laparocele è più frequente quando le incisioni sono di maggiore estensione.
Il laparocele può andare incontro alle complicanze di tutte le ernie della parete addominale, ha la tendenza a ingrandirsi, può strozzarsi, può determinare problemi nella crescita della pelle che lo ricopre. Le complicanze del laparocele possono, in alcuni casi, richiedere un intervento chirurgico d’urgenza.
Altre cause possono essere infezioni della ferite, traumi che non hanno provocato un taglio della cute, la lassità delle strutture muscolari. Può essere causata anche dalle broncopneumopatie croniche ostruttive per i frequenti e violenti colpi di tosse che si riflettono sui muscoli della pancia.
DIAGNOSI
Per la diagnosi di laparocele è sufficiente una visita medica e l’osservazione del tipico gonfiore associato alla ferita chirurgica.
TERAPIA
Il trattamento chirurgico del laparocele può essere eseguito con due procedure, entrambe con anestesia generale. Solo in casi eccezionali, un laparocele di piccole dimensioni può essere trattato con altre forme di anestesia.
La procedura tradizionale utilizza la stessa cicatrice come via di accesso chirurgico: attraverso questa incisione si isolano il sacco peritoneale e la porta del laparocele. L’intervento consente di ricollocare, riducendolo, il laparocele all’interno dell’addome e, generalmente, si posiziona una rete di materiale sintetico il cui scopo è quello rinforzare la parete in cui si era verificato il cedimento dei tessuti che lo ha provocato.
La seconda soluzione prevede l’utilizzo della chirurgia laparoscopica, un trattamento mini-invasivo, per accedere alla cavità peritoneale e quindi per visualizzare “dall’interno” la zona di cedimento fasciale: utilizzando 3 o 4 piccole incisioni chirurgiche addominali è possibile introdurre nella cavità addominale telecamera e strumenti chirurgici.
La cirrosi è una malattia cronica del fegato caratterizzata dalla formazione di tessuto fibroso dopo molti anni passati a lottare contro patologie (come l’epatite) o problematiche (come l’abuso di alcol) in grado di danneggiare quest’organo. La cirrosi è una condizione irreversibile, ma le cui conseguenze possono essere limitate intervenendo precocemente.
La cirrosi limita la funzionalità del fegato e se non viene trattata per tempo può risultare fatale. La formazione delle cicatrici fibrose riduce il flusso del sangue nell’organo, causando un’ipertensione polmonare che a sua volta può portare a emorragie e a gonfiori addominali e a livello delle gambe. Non solo, in caso di cirrosi l’organismo è più debole nei confronti delle infezioni, può andare incontro a malnutrizione a causa dell’incapacità di processare adeguatamente i nutrienti e ha difficoltà nello smaltire le tossine. Infine, la cirrosi aumenta il rischio di cancro al fegato e, nel caso in cui l’organo non è più in grado di eliminare la bilirubina dal sangue, può manifestarsi come ittero (ingiallimento della pelle e delle sclere degli occhi).
Quali sono le cause della cirrosi?
La cirrosi è causata dalla cicatrizzazione del tessuto epatico dovuta ad anni di ripetuti danni al fegato. Ogni volta che viene danneggiato quest’organo tenta di ripararsi, formando delle cicatrici. L’accumulo di cicatrici limita il suo funzionamento. Fra le possibili cause dei danni al fegato sono inclusi l’abuso di alcol, l’epatite B e C, la steatosi epatica non alcolica, problemi a carico dei dotti biliari, l’accumulo di ferro nell’organismo o di rame nel fegato, le malattie epatiche autoimmuni, la fibrosi cistica, la schistosomiasi e disturbi ereditari del metabolismo degli zuccheri. In alcuni casi a portare alla cirrosi sono più cause concomitanti, mentre nel 20% dei casi non c’è una causa evidente e si parla di cirrosi criptogenetica.
Spesso i sintomi della cirrosi non si manifestano fino a quando il danno all’organo non è molto esteso. Alla loro comparsa si includono affaticamento, emorragie e lividi frequenti, prurito, ittero, accumulo di fluidi nell’addome (ascite), perdita di appetito e di peso, nausea e gonfiori alle gambe.
Per ridurre il rischio di cirrosi è importante:
• limitare il consumo di alcolici
• seguire un’alimentazione sana
• mantenere il peso nella norma
• ridurre il rischio di contrarre l’epatite B o C con
• rapporti sessuali protetti ed, eventualmente, vaccinazioni
DIAGNOSI
Le analisi che possono essere condotte per confermare la diagnosi includono:
• esami del sangue per verificare i livelli di bilirubina e degli enzimi epatici ma anche indici di sintesi epatica come l’albumina, le piastrine e il tempo di protrombina
• ecografia
• elastografia
• TC
• risonanza magnetica
• biopsie del tessuto epatico
TRATTAMENTI
Il trattamento più adatto varia a seconda della causa della cirrosi. L’obiettivo finale è sempre rallentare la progressione della cicatrizzazione prevenendo allo stesso tempo la comparsa di eventuali complicazioni o riducendo i loro sintomi.
Nelle fasi più precoci le opzioni terapeutiche includono:
• il trattamento dell’alcolismo;
• la perdita di peso (in caso di steatosi epatica non alcolica);
• l’assunzione di farmaci per il trattamento dell’epatite o di altre malattie sottostanti la cirrosi;
• l’assunzione di farmaci o di integratori per ridurre i sintomi della cirrosi;
• un’alimentazione adatta a contrastare l’accumulo di liquidi;
• l’assunzione di antipertensivi o interventi chirurgici per ridurre la pressione sanguigna nel fegato o per fermare eventuali emorragie;
• antibiotici per contrastare infezioni in corso;
• farmaci per ridurre l’accumulo di tossine nel sangue;
• il trapianto di fegato.
L’acalasia esofagea è una patologia dell’esofago a eziologia non nota caratterizzata da un disturbo della motilità esofagea che si esprime con un ipertono dello sfintere esofageo inferiore (che si rilascia incompletamente e in modo non coordinato con passaggio del cibo) e con l’assenza della peristalsi fisiologica a livello del corpo esofageo. Ne derivano disfagia (difficoltà a deglutire), rigurgito, scialorrea, calo ponderale e dolore toracico; inoltre la condizione determina generalmente la comparsa di una dilatazione dell’esofago che può assumere una forma cosiddetta “sigmoidea” caratterizzata da curvature nel tratto sovradiaframmatico, con possibili lesioni al tratto terminale.
Chi soffre di acalasia ha un’incidenza di insorgenza di carcinoma dell’esofago (sia squamo cellulare che adenocarcinoma) cinque volte superiore alla media.
DIAGNOSI
Il sintomo principale è la difficoltà a deglutire (disfagia).
La diagnosi viene sospettata sulla base dei sintomi, di una lastra dell’esofago e dello stomaco e della gastroscopia. Tuttavia l’accertamento diagnostico deve passare attraverso l’esecuzione di una manometria esofagea, ossia di una metodica diagnostica che registra l’attività pressoria del viscere.
TERAPIA
La terapia medica sostanzialmente non è efficace e con effetti collaterali importanti.
Le terapie “meccaniche” deputate alla rimozione dell’ostacolo al deflusso del contenuto dell’esofago possono essere di aiuto nel contrastare i sintomi. Queste possono essere endoscopiche (dilatazione pneumatica; ma si sta sviluppando anche una tecnica detta POEM: ovvero una miotomia, che prevede la sezione delle fibre muscolari dell’esofago, attraverso un’endoscopia flessibile trans orale) o chirurgiche (miotomia per via addominale).
L’intervento di miotomia extramucosa con plastica antireflusso viene eseguito per via laparoscopica (si introducono nell’addome mediante delle cannule, la telecamera e gli strumenti chirurgici) ed è pertanto un intervento mininvasivo. Il paziente viene operato in anestesia generale.
La miotomia prevede la sezione delle fibre muscolari ipertrofiche esofago–gastriche; la sede della miotomia viene poi “coperta” dal fondo gastrico in modo da ridurre la possibilità di avere un reflusso gastro-esofageo postoperatorio.
È il più comune tumore benigno del fegato. La grande diffusione dell’ecografia addominale, avvenuta negli ultimi 20 anni, ne ha portato alla scoperta sempre più frequente. Infatti, l’angioma viene spesso rilevato come reperto occasionale durante indagini eseguite per altri motivi. L’angioma è del tutto benigno, non degenera mai in neoplasia maligna e non rappresenta, generalmente, un’indicazione ad un intervento chirurgico.
Nella grande maggioranza di casi l’angioma del fegato non causa alcun sintomo. Nel caso il paziente presenti comunque un qualche fastidio deve sempre essere indagata la presenza di altre malattie che possano causare i sintomi lamentati (in particolare deve essere ricercata la presenza di ulcere gastriche o duodenali per i disturbi dolorosi addominali e quella di malattie della colonna vertebrale nel caso i dolori vengano riferiti posteriormente).
Qualche angioma può però effettivamente causare sintomi: in particolare quelli di dimensioni più grandi e quelli situati nelle parti più periferiche del fegato. I sintomi causati possono essere assai vari e sfumati: senso di pesantezza addominale, tensione, dolore, disturbi digestivi.
L’angioma può essere singolo o multiplo. Le dimensioni possono variare da pochi millimetri a diversi centimetri, fino anche ad occupare gran parte del fegato. Quando il fegato è completamente disseminato di angiomi si può parlare di angiomatosi.
DIAGNOSI
Nella maggior parte dei casi la presenza di un angioma epatico viene oggi rilevata casualmente durante un’ecografia eseguita per un qualunque motivo. La TAC e la risonanza magnetica vengono usate per una migliore definizione diagnostica.
All’ecografia l’angioma ha un aspetto tipico. Appare come un nodulo od una massa iperecogena a margini netti nel contesto del parenchima epatico: questo aspetto è assai specifico. In pochi altri casi, e spesso quando l’angioma è di grandi dimensioni, l’aspetto può essere diverso, apparendo ipoecogeno o anche ad ecogenicità mista, con zone iperecogene alternate a zone ipoecogene.
Se l’ecografia mostra nel fegato una lesione di piccole-medie dimensioni con le caratteristiche tipiche dell’angioma, allora non è giustificato procedere con ulteriori indagine diagnostiche per verificarne la natura. Questi se il paziente non ha sofferto, nella sua storia clinica passata, di altre malattie importanti, in particolare tumorali.
L’angiografia viene eseguita quasi esclusivamente nei pazienti candidati ad un trattamento chirurgico e mostra l’angioma come lesione ipervascolarizzata.
TRATTAMENTI
L’angioma epatico più comune (quello asintomatico, rilevato occasionalmente durante un ecografia addominale) non ha bisogno di alcuna terapia. Infatti gli angiomi tendono a essere lesioni stabili nel tempo, asintomatiche, con scarsa o nulla tendenza all’aumento di volume ed ancora più remota possibilità di rottura.
Solo in pochi casi gli angiomi necessitano oggi di terapia. Questi casi sono:
• la presenza di sintomi sicuramente causati dall’angioma
• l’accertata e documentata tendenza all’accrescimento volumetrico
• una particolare posizione o conformazione dell’angioma (ad. es.: lesioni peduncolate)
• la rarissima eventualità che l’angioma si rompa
•quando esiste un dubbio diagnostico.
La terapia degli angiomi che lo richiedano è chirurgica e consiste nell’ asportazione. La rimozione di un angioma dal fegato può essere eseguita mediante:
• l’enucleazione: l’angioma viene rimosso dal fegato seguendo la capsula fibrosa esterna che è a diretto contatto con il parenchima epatico. Questo intervento non comporta la rimozione di nessuna porzione di tessuto epatico sano;
• una resezione epatica: in altri casi, in particolare per quegli angiomi che arrivano ad occupare anche un intero emifegato, può risultare più agevole e sicuro per il paziente l’esecuzione di una vera e propria resezione epatica anatomica. L’estensione di questa resezione viene stabilita in base alla localizzazione dell’angioma nel fegato ed in base ai rapporti con le strutture vascolari epatiche.
L’esecuzione di tali interventi in centri specializzati nella chirurgia epatica è sicura, comportando un rischio operatorio del tutto minimo. In una grande percentuale di casi è possibile eseguire l’intervento senza ricorrere a trasfusioni di sangue.
Trapianto di fegato: in rarissimi casi l’angioma si può sviluppare sino a sostituire l’intero fegato e dare sintomi da insufficienza epatica. In questi casi non è più possibile asportare l’angioma con enucleazioni o resezioni, ma è necessario asportare l’intero organo. Si tratta di casi veramente eccezionali.
L’appendicite è un doloroso gonfiore dovuto ad infezione dell’appendice (anche chiamata appendice vermiforme).
L’appendice è una borsa grande come un dito attaccata all’intestino crasso e collocata nell’area inferiore destra dell’addome.
I sintomi dell’appendicite comprendono: dolore addominale, inappetenza, nausea, vomito, stitichezza o diarrea, incapacità di espellere gas, qualche linea di febbre e gonfiore addominale.
Il dottore può diagnosticare la maggior parte dei casi di appendicite con un’anamnesi medica personale ed eseguendo una visita. A volte le prove di laboratorio e gli imaging test servono a confermare la diagnosi.
Di solito l’appendicite viene curata rimuovendo l’appendice.
L’appendicite è un’emergenza medica che richiede cure immediate.
La rimozione dell’appendice non sembra influire in alcun modo sulla salute di una persona.
Un’ostruzione del lume (l’interno dell’appendice) può causare appendicite. Il muco prodotto retrocede nel lume causando la moltiplicazione dei batteri che normalmente si trovano all’interno dell’appendice. La conseguenza è che l’appendice si gonfia e viene infettata.
Fonti di ostruzione possono essere:
• feci,
• parassiti,
• crescita anormale del tessuto linfatico (per esempio a causa del morbo di Crohn),
• corpi estranei o noccioli (uva, ciliege, peperoni),
• tumori.
Un’appendice infiammata probabilmente scoppierà se non viene rimossa. Scoppiando diffonderebbe l’infezione dappertutto nell’addome, causando peritonite.
Tutti possono essere soggetti all’appendicite, ma è più comune in persone tra i 10 e i 30 anni di età.
La maggior parte delle persone con appendicite manifesta i classici sintomi che qualsiasi dottore può facilmente identificare.
Il sintomo principale è dolore addominale, di solito improvviso, spesso inducendo una persona a svegliarsi di notte: si avverte prima di ogni altro sintomo, inizia vicino all’ombelico e continua più in basso e verso destra. E’ un dolore nuovo e diverso da ogni altro dolore avvertito prima d’ora, peggiora nel giro di poche ore e aumenta d’intensità muovendosi, facendo profondi respiri, tossendo o starnutendo.
Altri sintomi dell’appendicite possono essere:
• inappetenza,
• nausea,
• vomito,
• stitichezza o diarrea,
• incapacità di espellere gas,
• qualche linea di febbre che segue altri sintomi,
• gonfiore addominale,
• sensazione che la defecazione allevierà il disagio.
Sintomi che variano e che possono mimetizzarsi con altre cause di dolori addominali includono:
• ostruzione intestinale,
• malattie infiammatorie dell’intestino,
• malattie infiammatorie pelviche e altri disturbi ginecologici,
• aderenza intestinale,
• stitichezza.
DIAGNOSI
Come viene diagnosticata l’appendicite? Un dottore o un altro operatore sanitario può diagnosticare la maggior parte dei casi di appendicite prendendo un’anamnesi medica personale ed eseguendo delle visite mediche. Se una persona presenta i classici sintomi il dottore potrebbe consigliare un immediato intervento chirurgico per rimuovere l’appendice prima che scoppi. Nel caso in cui una persona non presenti la tradizionale sintomatologia, si potrebbe ricorrere a prove di laboratorio e test diagnostici per confermare la diagnosi di appendicite. Le analisi potrebbero anche aiutare a diagnosticare l’appendicite in persone incapaci di descrivere adeguatamente i loro sintomi, come bambini o persone con danni al cervello.
Durante la visita il medico farà delle specifiche domande riguardo i sintomi e lo stato di salute in generale. Le risposte a queste domande aiuteranno ad escludere altre condizioni. Successivamente verrà valutato quando è iniziato il dolore e la sua esatta collocazione e gravità. Può essere utile sapere quando gli altri sintomi sono comparsi.
I dettagli sul tipo di dolore addominale sono la chiave per diagnosticare l’appendicite. Il medico valuterà il dolore toccando o facendo pressione su specifiche zone dell’addome, reazioni che possono essere segno di appendicite sono:
• Contrattura di difesa addominale. La contrattura di difesa addominale avviene quando una persona tende i muscoli addominali durante una visita.
• Il dottore farà un esame sulla sensibilità al rilascio facendo pressione con le mani sull’addome e poi rilasciando. Una persona potrebbe anche avvertirla come dolore quando l’addome viene urtato, per esempio quando urta contro qualcosa o subisce un colpo.
• Manovra di Rovsing. Con le dita e il palmo della mano si esercita una pressione sull’addome a livello della fossa iliaca sinistra. Quindi la mano viene spostata progressivamente verso l’alto a comprimere il colon discendente. Se la manovra evoca dolore nella fossa iliaca destra si dice positiva ed è un segno, incostante, di appendicite acuta.
• Manovra di Psoas. Il muscolo destro psoas investe la pelvi vicino all’appendice. Flettendo questo muscolo si avvertirà dolore addominale se l’appendice è infiammata. Il dottore può valutarlo facendo resistenza con il ginocchio destro quando il paziente cerca di alzare la gamba destra mentre si sta sdraiando. Sintomi del muscolo otturatore. Anche il muscolo otturatore destro passa vicino all’appendice. Il dottore fa un’analisi sui sintomi del muscolo otturatore chiedendo al paziente di sdraiarsi con la gamba destra piegata al ginocchio. Muovendo il ginocchio piegato a sinistra e a destra è costretto a flettere il muscolo otturatore avvertendo cosi dolore addominale se l’appendice è infiammata.
• Alle donne in età feconda potrebbe essere chiesto di sottoporsi a un esame pelvico per escludere problemi ginecologici, che a volte causano dolori addominali simili all’appendicite.
• Il dottore potrebbe anche esaminare il retto che può essere sensibile all’appendicite.
Gli esami del sangue servono a verificare segni di infezione, come ad esempio un alto livello di globuli bianchi. Gli esami del sangue possono anche mostrare disidratazione o squilibrio di fluidi e di elettroliti. L’analisi delle urine serve a escludere un infezione del tratto urinario. Il dottore può anche prescrivere un test di gravidanza per le donne.
Una tomografia computerizzata (CT), tramite le imagini del corpo, può aiutare a diagnosticare l’appendicite e altre fonti di dolore addominale. L’ultrasuono è a volte utilizzato per cercare i segni di appendicite, soprattutto in persone molto magre o giovani. Una radiografia addominale è raramente utile per diagnosticare l’appendicite, ma può essere usata per cercare altre fonti di dolore addominale. Le donne in età fertile dovrebbero fare un test di gravidanza prima di sottoporsi a una radiografia o a una tomografia computerizzata, poiché l’uso di radiazioni potrebbe essere dannoso per il feto.
TRATTAMENTI
L’appendicite è un’emergenza medica che richiede cure immediate. Chiunque pensi di avere l’appendicite deve consultare il proprio dottore o recarsi al pronto soccorso immediatamente. Una rapida diagnosi riduce le probabilità che l’appendice scoppi, migliorando cosi il tempo di guarigione.
Di solito l’appendicite viene curata rimuovendo chirurgicamente l’appendice. Se si sospetta un’appendicite, spesso il dottore consiglia un intervento chirurgico senza eseguire approfondite analisi diagnostiche. Un immediato intervento chirurgico ridurrà la possibilità che l’appendice scoppi.
L’intervento chirurgico per rimuovere l’appendice viene chiamato appendicectomia e può esere eseguito in due modalità.
• Il metodo più vecchio prevede una laparotomia, con cui si rimuove l’appendice attraverso una singola incisione nell’area inferiore destra dell’addome.
• Il nuovo metodo è chiamato video-laparo-appendicectomia, con cui vengono eseguite diverse incisioni più piccole usando speciali strumenti chirurgici appositi per le incisioni per rimuovere l’appendicite. L’intervento chirurgico laparoscopico è causa di meno complicazioni, come infezioni post-operatorie, e permette una ripresa in un tempo inferiore.
Occasionalmente un intervento chirurgico rivela una appendice sana. In tali casi molti chirurghi rimuovono comunque l’appendice per evitare una futura possibilità di appendicite. Raramente un intervento chirurgico rivela un problema diverso, che può anche essere risolto durante la stessa operazione.
A volte intorno all’appendice scoppiata si forma un ascesso, chiamato ascesso appendicolare. Un ascesso è una massa piena di pus che viene causata dal tentativo del corpo di impedire all’infezione di diffondersi. L’ascesso può essere trattato durante l’intervento o, più comunemente, drenato prima dello stesso. Per drenare un ascesso viene collocato un tubo al suo interno attraverso la parete addominale, la tomografia computerizzata viene usata per trovare il punto preciso. Il tubo del drenaggio viene lasciato nel punto per circa 2 settimane, mentre gli antibiotici vengono dati per curare l’infezione. Da 6 a 8 settimane più tardi, quando l’infezione e l’infiammazione sono sotto controllo, viene eseguito l’intervento chirurgico per rimuovere ciò che rimane dello scoppio dell’appendice.
La cura senza intervento chirurgico può essere fatta se questo non è possibile, se una persona non sta abbastanza bene da potersi sottoporre ad un’operazione per esempio. Alcune ricerche suggeriscono che l’appendicite può migliorare senza interventi chirurgici. Una cura senza intervento chirurgico include antibiotici per curare l’infezione ed una dieta di liquidi o leggera affinchè l’infezione guarisca. Una dieta leggera è povera di fibre e passa facilmente nel tratto gastrointestinale.
Con le cure adeguate la maggior parte delle persone guarisce dall’appendicite e non ha bisogno di apportare cambiamenti nella propria dieta, nell’esercizio fisico o nello stile di vita. La completa guarigione dall’intervento chirurgico avviene in 4-6 settimane. La limitata attivita fisica durante questo periodo serve alla guarigione dei tessuti.
La cirrosi biliare primitiva è un’infiammazione cronica delle vie biliari che colpisce maggiormente le donne tra i 40 e i 60 anni.
Le cause sono sconosciute ed è una malattia spesso asintomatica nella fase iniziale. Successivamente alcuni sintomi possono essere stanchezza, prurito, l’ittero, la secchezza degli occhi e della bocca.
DIAGNOSI
La diagnosi della cirrosi biliare primitiva viene fatta sulla base dei sintomi, degli esami del sangue, transaminasi,fosfatasi alcalina e gamma GT in particolare, della ricerca degli anticorpi (ANA e AMA), di una ecografia e della biopsia epatica.
TERAPIA
La terapia è farmacologia e il paziente può essere trattato con acido ursodesossicolico ma non esiste una terapia specifica.
Possono essere utilizzati anche altre tipologie di farmaci in presenza di osteoporosi e vitamine liposolubili.
Nel caso in cui invece la malattia sia in fase avanzata, può essere preso in considerazione il trapianto di fegato.
L’ascite è la complicazione più frequente della cirrosi epatica e consiste nell’accumulo di liquido nell’addome, generalmente associata ad un peggioramento della qualità di vita, ad un aumentato rischio di infezioni e di problemi renali.
E’ provocata da diverse cause tra cui: l’ipertensione portale, l’alterazione a carico del rene che non riesce ad eliminare in modo opportuno il sodio e quindi tende anche a trattenere maggiori quantità di acqua e la riduzione delle proteine che vengono prodotte dal fegato (albumina), che svolgono un ruolo cruciale nel “trattenere” i liquidi all’interno dei capillari sanguigni.
La comparsa di ascite nel paziente con cirrosi epatica è un segno negativo: infatti la vita media di chi presenta tale problema si riduce approssimativamente da circa 10 anni quando la cirrosi non è complicata a 2-4 anni nel caso in cui si sia presentata l’ascite.
La comparsa di ascite è una delle cause principali di necessità di ricovero del paziente epatopatico, assieme al sanguinamento gastroenterico.
I principali disturbi provocati dall’ascite sono variabili e in relazione alla quantità di liquido accumulato. Se l’ascite è poca è possibile non accusare alcun disturbo, quando la quantità di liquido è abbondante si avverte un senso di peso, di ingombro dovuto alla distensione dell’addome. I movimenti possono risultare particolarmente complicati e può comparire anche difficoltà respiratoria, stanchezza, riduzione dell’appetito con senso di sazietà precoce per la distensione causata dal liquido addominale e conseguente progressiva perdita di massa muscolare (da notare bene che il peso corporeo in realtà aumenta, ma si tratta di accumulo di liquidi, mentre in realtà il corpo “deperisce”).
DIAGNOSI
La diagnosi di ascite si può ottenere con una visita medica nelle sue fasi avanzate. Il medico attraverso l’esame visivo dell’addome e alcune semplici manovre individua i segni tipici dell’ascite.
Per la diagnosi delle cause o per escludere altre condizioni, il medico può richiedere i seguenti esami:
• Esami del sangue, con emocromo, elettroliti (natremia, potassiemia, cloremia, test della funzionalità renale (creatininemia, azotemia), transaminasi (AST e ALT), glicemia;
• Ecografia addominale, per la ricerca di ascite lieve, la stima della quantità di liquido e di altre condizioni come la sindrome di Budd-Chiari;
• In seguito a paracentesi, esame del liquido aspirato per la ricerca di infezioni batteriche o per il dosaggio delle albumine e delle proteine, per la ricerca di eventuali cellule tumorali.
TRATTAMENTI
Il trattamento dell’ascite prevede alcune misure alimentari, come la riduzione del sale (sodio) negli alimenti per evitare la ritenzione dei liquidi.
I farmaci principali sono i diuretici, per l’espulsione dei liquidi in eccesso.
Nel caso in cui l’ascite non migliori con l’uso di diuretici, si interviene con l’aspirazione dei liquidi. La procedura si chiama paracentesi e viene eseguita in regime ambulatoriale.
Nel caso di peritonite batterica spontanea, l’infezione viene trattata con antibiotici.
Allo Shunt portosistemico transgiugulare intraepatico (TIPS) si ricorre per il trattamento dell’ipertensione portale
I calcoli biliari sono piccoli sassolini che si formano nella cistifellea (anche chiamata colecisti), un organo che si trova sotto il fegato sul lato destro dell’addome, e che possono creare un’infiammazione dolorosa. I calcoli, simili a piccoli sassi solidi, si sviluppano per effetto della cristallizzazione della bile. La bile è il liquido che permette di digerire i grassi: viene prodotto dal fegato e si raccoglie nelle cistifellea in attesa di essere rilasciato nell’intestino quando è necessario alla digestione. È formato da colesterolo, grassi, sali biliari e bilirubina.
Può accadere che alcuni di questi componenti, il colesterolo o i sali biliari, siano in eccesso e causino la solidificazione. I calcoli, di differenti dimensioni e numero, occupano la cistifellea e possono ostruire i dotti biliari che drenano la bile che il fegato produce nell’intestino.
L’effetto è un’infiammazione della cistifellea, dei dotti biliari e talvolta del fegato, con sintomi spesso molto dolorosi e con effetti anche gravi, che per essere curati richiedono in alcuni casi un intervento chirurgico di rimozione della cistifellea (colecistitectomia).
Il motivo per cui si formano i calcoli biliari non è ancora del tutto noto. Generalmente si ritiene che la causa sia l’eccesso di colesterolo che la bile non è in grado di sciogliere. Questo comporta la formazione di cristalli che si solidificano fino a formare i sassolini. I calcoli di colesterolo hanno un colore giallognolo. In altri casi i calcoli sono pigmentati. Si formano per effetto della sedimentazione della bilirubina, un liquido di scarto rilasciato dal fegato. I calcoli assumono il tipico colore scuro. Anche in questo caso il meccanismo che causa i calcoli non è del tutto chiaro. Sono noti, invece, i fattori che possono incrementare il rischio di calcoli biliari:
• sesso femminile
• una dieta con troppi grassi e povera di fibre
• sovrappeso e obesità o, al contrario, dimagrimento troppo rapido
• gravidanza
• diabete
• familiarità
• farmaci: anti-colesterolo o terapie ormonali a base di estrogeni
I sintomi provocati dai calcoli biliari si verificano quando ostruiscono i dotti biliari, aumentando la pressione nella cistifellea, e causando una infiammazione della cistifellea.
Possono verificarsi improvvisamente e includono:
• dolore improvviso e acuto nella parte destra dell’addome, sotto forma di fitte che durano poche decine di minuti fino ad alcune ore
• nausea e vomito
• febbre o brividi
• dolore alla schiena
• attacchi di diarrea, con feci morbide e chiare
• pelle e occhi giallastri (ittero e subittero)
Per prevenire la formazione dei calcoli biliari bisogna porre attenzione ad alcune raccomandazioni:
• non aumentare di peso e seguire un’alimentazione povera di grassi e ricca di fibre
• fare attività fisica
• non perdere peso troppo rapidamente: un dimagrimento rapido innalza il rischio di calcoli biliari
• non digiunare e non saltare i pasti
DIAGNOSI
Gli esami per diagnosticare la presenza di calcoli biliari includono:
• l’ecografia addominale
• TC o tomografia computerizzata
• Risonanza magnetica (RM)
• acido epatobiliare iminodiacetico (HIDA)
Se si effettua una colangiopancreatografia retrograda endoscopica (ERCP) è possibile procedere anche alla rimozione dei calcoli durante lo stesso esame diagnostico. Le analisi possono utilizzare un mezzo di contrasto per permettere la valutazione dei dotti biliari e la presenza di eventuali calcoli che li ostruiscono.
TRATTAMENTO
Il trattamento dei calcoli biliari si rende necessario in presenza di sintomi cronici o di un rischio attuale o probabile di complicazioni.
In molti casi, i calcoli non causano sintomi e problemi e, quindi, non necessitano di alcun trattamento. Negli altri casi si può procedere con:
• Intervento chirurgico per rimuovere la colecisti (colecistectomia): si tratta di uno degli interventi più comuni nella popolazione adulta. Il sacco della cistifellea viene asportato, congiungendo chirurgicamente il fegato all’intestino tenue. In seguito all’operazione, la bile prodotta dal fegato transita direttamente nell’intestino senza alcun problema dal punto di vista del metabolismo.
• Trattamento con farmaci che ha come obiettivo lo scioglimento dei calcoli: è una terapia molto lunga, con risultati spesso parziali o insoddisfacenti.
Una minoranza di tumori neuroendocrini localizzati a livello del tratto gastro-enterico-pancreatico sono costituiti da cellule tumorali poco differenziate e a rapida crescita, che possono originare da tutti i distretti. Tali tumori vengono trattati in maniera differente rispetto alle altre forme, ben differenziate, di tumori neuroendocrini, tumori a lenta crescita e solitamente poco aggressivi, anche se in alcuni casi possono invece crescere rapidamente e comportarsi in modo più maligno.
DIAGNOSI
Per confermare la diagnosi di carcinoma neuroendocrino scarsamente differenziato e definirne la sede, le dimensioni e la presenza di metastasi (fenomeno peraltro molto frequente in questa variante di malattia), generalmente vengono effettuati i seguenti esami:
• Tomografia Computerizzata (TC) dell’addome con tecnica trifasica: permette di acquisire immagini durante 3 differenti fasi di passaggio del mezzo di contrasto attraverso il fegato, per avere informazioni più accurate sulla eventuale diffusione del tumore ai linfonodi o al fegato
• Risonanza magnetica (RM) dell’addome
• PET-TC (Tomografia ad Emissione di Positroni con fusione TC): è attualmente una delle indagini più importanti per la diagnosi e la ristadiazione dei tumori neuroendocrini, grazie allo sviluppo di radiofarmaci specifici per questo tipo di neoplasie.
• La PET-TC con FGD utilizza un radiofarmaco che si accumula nelle lesioni neoplastiche caratterizzate da elevato metabolismo degli zuccheri e quindi fornisce informazioni circa l’aggressività delle neoplasie.
• La PET-TC con Dopamina utilizza un precursore di alcune sostanze secrete dalle neoplasie neuroendocrine e pertanto permette l’identificazione di questi tumori per via del loro peculiare metabolismo.
• La PET-TC con Gallio-DOTA-peptide utilizza un radiofarmaco in grado di legarsi ai recettori per la somatostatina molto spesso presenti in abbondanza sulla superficie dei tumori neuroendocrini. Lo studio recettoriale di queste neoplasie non soltanto ne permette l’identificazione ma anche la selezione per alcuni tipi di terapie che utilizzano radiofarmaci analoghi della somatostatina.
• Scintigrafia recettoriale: è in grado di individuare i tumori neuroendocrini grazie alla presenza dei recettori per la somatostatina. Attualmente è un’indagine obsoleta nei centri ove sia disponibile la PET con Gallio-DOTA.
• Biopsia: si tratta di un prelievo del tumore, che viene poi esaminato al microscopio. E’ indispensabile per aver conferma che si tratti di un carcinoma neuroendocrino poco differenziato.
TRATTAMENTO
Solitamente questo tipo di tumori viene diagnosticato in stadi avanzati e trattato con regimi di chemioterapia che utilizzano simultaneamente diversi tipi di farmaci. In alcuni casi, al trattamento chemioterapico possono essere associati anche trattamenti chirurgici o radioterapici.
Le cisti del fegato sono sacchettini ripieni di fluidi che si possono trovare all’interno del fegato. Nella maggior parte dei casi si tratta di cisti semplici, ossia formazioni non tumorali, non associate al cosiddetto rene policistico e non causate da batteri o parassiti.
Nella maggior parte dei casi quando si parla di cisti del fegato si fa riferimento a formazioni presenti nel tessuto epatico che contengono un fluido prodotto dalla loro stessa parete, ossia alle cosiddette cisti semplici. La parete di queste formazioni è un epitelio che produce in continuazione un liquido dalla composizione simile a quella del plasma. Le loro dimensioni non superano, in genere, i due centimetri e la rottura è rara. Nel caso i rischi che si corrono sono quelli di un’infezione o di un ascesso epatico. Quello delle cisti semplici è un problema piuttosto comune, soprattutto in età avanzata, che può manifestarsi con la presenza di una o più cisti contemporaneamente.
La causa della formazione delle cisti del fegato semplici non è nota, ma si pensa che si tratti di un problema di origine congenita. L’ipotesi è che si formino con la progressiva dilatazione di piccoli noduli che si possono formare vicino alla vena porta e all’arteria epatica in seguito alla morte o alla degenerazione di un piccolo gruppo di cellule del fegato.
In genere le cisti semplici sono asintomatiche. Cisti di grandi dimensioni possono però causare un dolore sordo nella parte destra alta dell’addome, mentre quelle che si muovono possono scatenare un dolore acuto. Altri possibili sintomi sono gonfiore addominale e senso di pienezza, la presenza di una massa addominale rilevabile al tatto e, nei rari casi in cui la cisti ostruisca un dotto biliare, ittero. In caso di rottura della cisti è possibile avere a che fare con febbre e aumento dei globuli bianchi nel sangue.
DIAGNOSI
La diagnosi di una cisti semplice del fegato richiede un’accurata visita medica in cui il medico raccoglie informazioni sulla storia clinica del paziente e lo sottopone ad esami fisici.
Fra le analisi che possono essere prescritte sono incluse:
• Ecografia;
• CT addominale;
• In rari casi RM o angiografia epatica;
• Esami del sangue per valutare la funzionalità epatica;
TRATTAMENTI
Nella maggior parte dei casi le cisti semplici non richiedono nessun trattamento. Se, però, si ingrossano fino a diventare dolorose è possibile intervenire chirurgicamente aprendo la loro parete in modo che il fluido prodotto venga riversato nella cavità peritoneale, dove verrà poi riassorbito.
Le cisti renali sono lesioni benigne ai reni, tasche ripiene di liquido che nella maggior parte dei casi non causano gravi complicazioni, ma che a volte possono essere associate a disturbi potenzialmente dannosi per la funzione renale.
Nella maggior parte di casi si tratta di formazioni isolate dette “cisti semplici”, ma è anche possibile avere contemporaneamente a che fare con più cisti e in entrambi i reni. E’ possibile soffrirne a qualsiasi età, anche se il rischio di svilupparle aumenta con l’età, e in rari casi possono dar luogo a complicazioni come infezioni, rotture dolorose di una cisti o ostruzioni delle vie urinarie.
La causa della formazione delle cisti del rene non sono ancora del tutto note. Una delle ipotesi più diffuse è che la loro comparsa sia associata a un indebolimento della parete del rene che porta alla formazione di piccole tasche dette diverticoli. Questi, riempiendosi di liquidi e si staccandosi dalla parete, formerebbero le cisti.
In genere una cisti semplice non scatena sintomi particolari. Se però le sue dimensioni diventano abbastanza grandi è possibile avere a che fare con dolori sordi alla schiena, febbre e dolori alla parte superiore dell’addome.
Come prevenire le cisti renali?
Non esistono metodi preventivi nei confronti delle cisti del rene.
All’inizio e alla fine dell’esofago, lo strato muscolare forma una zona di maggiore resistenza: è lo sfintere esofageo, rispettivamente superiore ed inferiore, che si rilascia nelle varie fasi del processo di deglutizione e di progressione del bolo alimentare. Se questo processo è disturbato possono aversi alterazioni di pressione all’interno del viscere esofageo a monte dello sfintere con conseguente fuoriuscita della mucosa esofagea attraverso quelle zone in cui la parete muscolare è meno resistente. Queste fuoriuscite formano i diverticoli da pulsione dell’esofago.
Le tipiche aree di debolezza dell’esofago sono situate a monte degli sfinteri: i diverticoli di Zenker si formano nello spazio tra faringe ed esofago, mentre a monte dello sfintere esofageo inferiore possono formarsi i diverticoli epifrenici.
I diverticoli di Zenker sono 2-3 volte più frequenti negli uomini rispetto alle donne.
I diverticoli si formano da un’estroflessione della mucosa esofagea attraverso quelle zone in cui la parete muscolare effettua minor resistenza. La fuoriuscita della mucosa può essere dovuta ad alterazioni di pressione nel viscere esofageo in caso di disturbi al processo di deglutizione e progressione del bolo alimentare.
Il principale sintomo è la disfagia, ossia la difficoltà alla deglutizione.
Possono inoltre aversi:
• rigurgito di cibo non digerito
• alitosi
• tosse legata a fenomeni di inalazione del cibo nelle vie aeree
DIAGNOSI
La diagnosi deve essere sospettata sulla base dei sintomi; in genere la migliore metodica per diagnosticare il diverticolo quando se ne sospetti la presenza è l’indagine radiologica con contrasto (rx esofago).
TRATTAMENTI
Gli interventi chirurgici per il diverticolo di Zenker possono essere:
• Interventi transorali: avvengono “dall’interno” del viscere attraverso un endoscopio rigido o con endoscopio flessibile in casi selezionati.
• Interventi per via cervicotomica: vengono effettuati dall’esterno mediante un’incisione chirurgica a livello del collo.
Con epatopatia alcolica si fa riferimento a diverse condizioni di alterazioni del fegato causate da un consumo eccessivo di alcol. L’epatopatia è un processo degenerativo caratterizzato da tre malattie del fegato legate tra di loro da un crescendo di rischi per il paziente: la steatosi (fegato grasso), l’epatite alcolica, la cirrosi epatica. Il rapporto con l’alcolismo è complesso.
La steatosi provoca un ingrossamento del fegato causato da un accumulo di trigliceridi, spesso senza sintomi per molto tempo. Questa condizione può precedere l’epatite alcolica, un’infiammazione cronica dei tessuti del fegato che porta alla morte (necrosi) e all’alterazione delle funzionalità dell’organo. Il passo successivo è la formazione di cicatrici (fibrosi) tipico della cirrosi epatica, con danni permanenti al fegato.
Il meccanismo che causa l’epatopatia non è ancora del tutto chiaro. È noto che la trasformazione dell’alcol a livello del fegato produce sostanze tossiche che innescano il processo infiammatorio, ma non è da escludere la predisposizione genetica di alcune persone.
Fattori di rischio elevato sono anche l’epatite C, l’obesità e una dieta squilibrata.
I sintomi dell’epatopatia alcolica variano a seconda dello stadio della patologia.
In una prima fase (steatosi) l’alterazione può restare silenziosa, senza sintomi, anche per molti anni. In alcuni casi può manifestarsi con un indolenzimento transitorio nella parte destra e superiore dell’addome.
Nelle fasi avanzate (epatite alcolica e cirrosi) i sintomi sono più rilevanti:
• Febbre
• Dolore addominale
• Perdita di appetito
• Nausea e vomito
• Stanchezza
• Ittero, vale a dire ingiallimento della pelle e della sclera, la parte bianca dell’occhio
• Problemi nervosi, confusione, ansia, agitazione
Gli stadi avanzati dell’epatopatia, in particolare l’epatite alcolica, una condizione critica che ha esiti fatali, si collega a una serie di complicazioni anche gravi, quali:
• Ipertensione
• Varici, con probabili emorragie interne dei vasi dell’esofago
• Leucocitosi neutrofila
• Ascite, vale a dire la ritenzione di liquidi nella cavità addominale con rischio di infezioni
• Encefalopatia epatica, con danni tossici al cervello
Bere alcolici con moderazione (non più di 2-3 bicchieri al giorno di vino) o evitare del tutto il consumo di vino, liquori e birra è l’unica forma di prevenzione dell’epatopatia alcolica. È necessario modificare il proprio stile di vita con un’alimentazione sana, ricca di frutta e verdura, con pesce più volte alla settimana, facendo un’attività fisica regolare e moderata.
DIAGNOSI
Gli esami di riferimento per la diagnosi di fegato grasso o steatosi epatica sono:
• Esami del sangue, con i test per la funzionalità epatica (bilirubina totale, albumina)
• Emocromo
• Ecografia addominale
• Tac (tomografia assiale) o Risonanza Magnetica (RM)
• Biopsia epatica
TRATTAMENTI
La prima azione per chi soffre di disturbi al fegato è smettere di bere. Nel caso si siano consumate grandi quantità di alcol per lungo tempo è bene chiedere un consulto a uno specialista di malattie del fegato, l’epatologo.
Il trattamento dell’epatopatia si attua modificando la propria dieta, aiutando l’organismo a ritrovare l’equilibrio metabolico con un’alimentazione sana. Spesso chi soffre di malattie del fegato è colpito da stati di malnutrizione e carenza di diverse vitamine e minerali che devono essere reintegrati. Il trattamento farmacologico delle fasi più avanzate, in caso di epatite, può prevedere l’uso di corticosteroidi o di pentossifillina.
Nei casi più gravi, le persone che soffrono di epatite alcolica hanno necessità di un trapianto di fegato.
L’ernia della linea alba, detta anche epigastrica, è un’ernia localizzata a livello addominale, più precisamente nella zona compresa tra l’ombelico e lo sterno. Si tratta di una protuberanza formata in genere da una porzione di tessuto adiposo che spinge attraverso l’addome.
In genere questa protrusione non supera le dimensioni di una pallina da golf e solo raramente non è formata da tessuto adiposo, ma da una porzione di intestino o di un altro organo presente nella cavità addominale.
Il problema è più diffuso fra i neonati e, in età adulta, fra gli uomini di età compresa tra i 20 e i 50 anni.
Può essere di due tipi diversi: l’ernia epigastrica riducibile, che può rientrare nella cavità addominale, e l’ernia epigastrica incarcerata (o strangolata), in cui il tessuto è bloccato nella fessura da cui è fuoriuscito. A volte sono presenti più ernie contemporaneamente.
Nella maggior parte dei casi un’ernia epigastrica è causata da un indebolimento o da un difetto congenito della parete addominale o del tessuto connettivo a livello dell’addome. In altri casi può essere dovuta all’intrappolamento di una piccola parte di alcuni organi addominali, inclusi fegato e stomaco, nella parete addominale. Altre possibilità sono sforzi durante i movimenti intestinali o durante il sollevamento di oggetti molto pesanti, accumuli di fluido nella cavità addominale, tosse persistente, obesità e gravidanza.
Spesso le ernie epigastriche non sono associate a sintomi particolari. A volte, però, possono essere dolorose o associate a gonfiore, nausea e vomito, in genere dopo i pasti, ma anche diarrea.
DIAGNOSI
Il medico può diagnosticare facilmente la presenza di un’ernia della linea alba durante una semplice visita, durante la quale potrebbe chiedere al paziente di tossire per visualizzare meglio la protrusione. La diagnosi potrebbe essere confermata o approfondita tramite:
• TAC
• RM
• ecografia
• TC ed ecografia sono particolarmente utili nel caso dei pazienti obesi
TERAPIA
Le ernie epigastriche non guariscono da sole. L’unico modo per eliminarle è un intervento chirurgico, indispensabile quando c’è un’elevata probabilità di incarceramento o di strangolamento dell’ernia. L’intervento consiste nella rimozione dell’ernia e nel rafforzamento della parete addominale e viene in genere eseguito in anestesia locale.
• In genere nei bambini l’intervento viene rimandato fino a che non sono abbastanza grandi da poterlo sopportare, a meno che non subentri un’emergenza;
• Il rischio di recidiva è del 10-20%;
• In caso di dolore o infiammazione il medico può prescrivere l’assunzione di antidolorifici e antinfiammatori;
L’ernia della parete addominale include tutti i casi in cui un viscere intestinale, o una sua parte, fuoriesce dalla sua sede naturale approfittando della debolezza dei muscoli e delle fasce dell’addome o di una “porta” naturale come l’ombelico o altri canali.
Ciò si verifica in seguito a varie cause, più di frequente congenite, presenti fin dalla nascita, o per lo sforzo o per il progressivo invecchiamento e rilassamento dei muscoli che sostengono l’addome. Si manifestano con un rigonfiamento morbido. Generalmente si parla di ernia addominale, anche se più precisamente si indica l’area in cui avviene l’erniazione e quindi si parla di ernia ombelicale, ernia epigastrica, ernia inguinale, ernia crurale, ernia otturatoria.
Con il passare del tempo le dimensioni dell’ernia tendono ad aumentare. L’ernia può essere a livello ombelicale, epigastrico, inguinale, crurale e otturatorio. Si può distinguere poi tra ernie addominali interne ed ernie addominali esterne.
Una complicazione dell’ernia addominale è lo strozzamento. Ciò avviene quando il viscere intestinale che si protende verso l’esterno viene stretto dai legamenti e dai muscoli o dal restringimento del canale in cui si è infilato. In questi casi è necessario un intervento chirurgico per evitare i rischi, anche gravi, di questa condizione come il ristagno di materiale nell’intestino strozzato o la gangrena con la perdita di vitalità dei tessuti compressi.
Fatta eccezione per alcuni casi di regressione spontanea, le ernie possono essere trattate chirurgicamente.
L’ernia addominale può essere del tutto asintomatica, cioè essere visibile senza tuttavia dare alcun disturbo. In genere però causa:
• fastidio o dolore, anche intenso se l’ernia è strozzata. Il fastidio e il dolore possono aumentare in caso di affaticamento, esercizio fisico, lunghe camminate, stando in posizione eretta prolungata oppure sforzi addominali intensi (tosse, starnuti, defecazione); i dolore può irradiarsi alla gamba
• tumefazione
• difficoltà della digestione
• dolore gastrico
Non esistono strategie specifiche per la prevenzione dell’ernia addominale, soprattutto quando questa è di natura congenita. Per ridurre i rischi può essere utile conservare un peso normale, senza perdere o prendere peso in eccesso, quando possibile, evitare sforzi fisici e attività pesanti, mantenere un buon tono muscolare della parete addominale, con esercizi mirati ma non eccessivamente faticosi, può allontanare il rischio.
DIAGNOSI
Per la diagnosi è sufficiente una visita medica e l’osservazione del tipico gonfiore.
TERAPIA
In alcuni casi le ernie addominali si risolvono spontaneamente. Ciò accade per le ernie ombelicali nel neonato che possono regredire spontaneamente dopo i primi anni di vita. Si parla di “ernia riducibile” quando dopo una manovra del medico, spinta verso l’interno, resta nella cavità addominale.
In tutti gli altri casi, le ernie addominali possono essere trattate chirurgicamente per ridurre il rischio di complicazioni pericolose come l’ernia strozzata e l’ernia incarcerata.
Il trattamento chirurgico può essere eseguito con due procedure, entrambe con anestesia generale.
La procedura tradizionale consente di ricollocare il viscere nella sua sede naturale dell’addome e, generalmente, si posiziona una rete di materiale sintetico il cui scopo è quello di rinforzare la parete in cui si era verificato il cedimento dei tessuti.
La seconda soluzione prevede l’utilizzo della chirurgia laparoscopica, un trattamento mini-invasivo, per accedere alla cavità peritoneale e quindi per visualizzare “dall’interno” la zona di cedimento fasciale. Utilizzando 3 o 4 piccole incisioni chirurgiche addominali è possibile introdurre nella cavità addominale telecamera e strumenti chirurgici.
L’ernia ombelicale è una protrusione di una piccola porzione di intestino attraverso i muscoli addominali. Più comune nei bambini, può comparire anche in età adulta, ma si tratta di un disturbo tipicamente innocuo e, in genere, di facile soluzione.
Nel caso in cui dovesse essere ancora presente al compimento del terzo anno di età o se dovesse comparire in età adulta potrebbe essere necessario un intervento chirurgico per evitare le complicazioni che potrebbero insorgere qualora rimanesse “intrappolata”.
In età adulta, invece, l’ernia può essere causata da un’eccessiva pressione all’interno dell’addome, che a sua volta può essere causata dall’obesità, da gravidanze multiple, dalla presenza di asciti o da interventi chirurgici.
Un’ernia addominale può causare la formazione di una protuberanza soffice vicino all’ombelico. A volte la sua presenza può essere rilevata solo mentre il bambino piange, tossisce o si stiracchia, mentre scompare quando il piccolo si calma o si sdraia a pancia in su. In genere nei bambini si tratta di un disturbo indolore, mentre negli adulti può causare fastidi addominali.
DIAGNOSI
Per diagnosticare un’ernia ombelicale è sufficiente una semplice visita medica. A volte il medico può ritenere opportuno prescrivere una radiografia o un’ecografia addominale per valutare il rischio di complicazioni.
TRATTAMENTI
L’ernia ombelicale nei bambini, nella maggior parte dei casi, non richiede nessun trattamento, tende a scomparire da sola entro l’anno-anno e mezzo di vita. Eventualmente il medico può cercare di farla rientrare esercitando una piccola pressione sull’addome, ma non bisogna mai tentare da soli questa soluzione.
Nei bambini l’intervento chirurgico è riservato ai casi in cui l’ernia è dolorosa, supera il centimetro e mezzo di diametro, le sue dimensioni non diminuiscono per 6-12 mesi e se non scompare entro i 3 anni di età rimane intrappolata nella parete addominale o blocca l’intestino.
Negli adulti il trattamento chirurgico è raccomandato. In questo modo si evitano possibili complicazioni, soprattutto quando l’ernia si ingrandisce o diventa dolorosa.
L’intervento consiste in una semplice incisione alla base dell’ombelico attraverso cui il tessuto erniato viene riportato all’interno dell’addome.
L’esofagite è un’infiammazione – a decorso acuto o cronico – dell’esofago, il condotto che trasporta il cibo dalla bocca allo stomaco.
Esistono diversi tipi di esofagite a seconda che sia causata da microbi, allergie, traumi, reflusso di succhi gastrici o ustioni. La più diffusa è quella provocata dal reflusso dei succhi gastrici che, dallo stomaco, tornano nell’esofago, provocando la sensazione di bruciore. I trattamenti dipendono dalla causa e dalla gravità del danno. Se non viene curata, l’esofagite può arrivare a modificare la struttura e la funzionalità dell’esofago.
Le cause che possono far sviluppare l’esofagite sono:
• esofagite da reflusso: si ha quando i succhi gastrici acidi contenuti nello stomaco entrano in contatto con la mucosa esofagea, provocando il bruciore. Questo contatto avviene quando non funziona efficacemente il cardias (l’orifizio che si trova tra lo stomaco e l’esofago e che ha il compito di impedire la risalita del contenuto gastrico nell’esofago stesso). Il reflusso gastroesofageo può comportare lo sviluppo di un’infiammazione cronica ai tessuti dell’esofago.
• esofagite eosinofila: è un’infiammazione a carico dell’esofago scatenata da un’alta concentrazione di globuli bianchi, di solito in risposta a un agente allergizzante. Tra gli alimenti che possono causare l’esofagite eosinofila ci sono latte, uova, soia. Anche allergeni non alimentari possono esserne la causa
• esofagite indotta da farmaci: diversi farmaci assunti per bocca possono causare danni se rimangono a contatto con la mucosa esofagea per un periodo troppo prolungato. Può capitare, ad esempio, quando una pillola viene ingerita con poca o senza acqua
• esofagite infettiva: l’esofagite può anche essere causata da un’infezione batterica, virale, fungina o parassitaria a livello dei tessuti dell’esofago. E’ piuttosto rara e si verifica più spesso in soggetti con scarsa funzionalità del sistema immunitario, come le persone con cancro o con HIV
DIAGNOSI
L’esofagite si manifesta con deglutizione dolorosa e può essere accompagnata da emorragia.
I sintomi dell’esofagite includono:
• difficoltà nella deglutizione
• deglutizione dolorosa
• dolore toracico, soprattutto dietro lo sterno
• nausea
• vomito
• dolore addominale
• tosse
• diminuzione dell’appetito
TRATTAMENTO
La prevenzione dipende dal tipo di esofagite. Per prevenire l’esofagite da reflusso è consigliabile seguire tutti gli accorgimenti che evitano il manifestarsi del reflusso gatroesofageo.
È bene dunque:
• suddividere l’alimentazione giornaliera in 4-5 piccoli pasti anziché in 2-3 abbondanti
• evitare cibi grassi e alcol
• limitare al minimo il consumo di alimenti come cioccolato, menta, caffè e tè
È inoltre sconsigliato indossare cinture o abiti troppo stretti e sdraiarsi prima che siano trascorse 2-3 ore dopo aver mangiato e può essere d’aiuto alzare la testiera del letto di 15-20 cm per avere l’esofago in posizione più alta rispetto allo stomaco.
• nel caso di esofagite eosinofila evitare gli agenti allergizzanti che scatenano la reazione infiammatoria nell’esofago
• per prevenire le esofagiti da farmaco è meglio assumere i farmaci con la giusta quantità di acqua e non sdraiarsi per almeno un’ora dopo aver assunto il farmaco.
L’insufficienza renale cronica è una condizione clinica che si determina quando i reni sono danneggiati ed è irrimediabilmente compromessa la loro capacità funzionale (depurazione, rimozione dei liquidi e produzione di ormoni), indipendentemente dalla malattia che ne è stata la causa.
Tali malattie possono riguardare i reni (glomerulo nefriti, nefriti interstiziali, ecc.), le vie urinarie (calcolosi), oppure i reni possono essere coinvolti in malattie che determinano un danno a tutto l’organismo (ipertensione arteriosa, diabete mellito) oppure, ancora, malattie ereditarie in cui si trasmettono dai genitori ai figli difetti di struttura di alcuni organi (ad esempio rene policistico). Quando i reni perdono quasi completamente la loro capacità di funzionare, l’organismo “s’intossica” perché i prodotti del metabolismo, i sali e l’acqua, si accumulano. Anche gli esami del sangue subiscono alcune modificazioni: aumento di azotemia (urea) e creatinina, riduzione dei bicarbonati (acidosi), aumento del fosforo, riduzione del calcio e riduzione dei globuli rossi (anemia). L’incapacità di mantenere un’adeguata depurazione si esprime in una serie di segni e sintomi chiamata uremia.
I segni e i sintomi della presenza di una possibile insufficienza renale sono: pressione arteriosa instabile, solitamente alta; nausea talvolta accompagnata da vomito; scarso appetito; comparsa di gonfiori soprattutto al volto e alle gambe con conseguente aumento di peso; disturbi del sonno e dell’umore; condizioni più drammatiche come l’edema polmonare (presenza di liquido nei polmoni) e la pericardite (infiammazione della membrana che avvolge il cuore).
DIAGNOSI
Con alcuni semplici esami del sangue (urea, creatinina, glicemia, sodio, potassio, PH, emocromo, calcio, fosforo), l’esame delle urine e l’ecografia delle vie urinarie è di solito facile fare la diagnosi di insufficienza renale. A volte è invece difficile capire la malattia che l’ha causata, e sono necessari molti altri esami. E’ fondamentale non perdere tempo, fare una diagnosi precoce.
TRATTAMENTO
È fondamentale curare la malattia che ha causato l’insufficienza renale (se possibile), e iniziare in ogni caso le cure il più presto possibile. Se si inizia troppo tardi infatti è molto più difficile impedire che la malattia porti alla dialisi. Il trattamento della pressione alta con farmaci specifici, del diabete, del colesterolo alto (e se presente dell’obesità), la riduzione del sale nella dieta, sono gli approcci fondamentali per proteggere i reni. Attenzione particolare deve essere messa all’uso di molti farmaci, che possono peggiorare la funzione renale (quali molti antidolorifici e antibiotici).
Trattamento con emodialisi
Le persone con un grado di insufficienza renale grave hanno bisogno della dialisi come terapia salvavita. Emodialisi vuol dire “depurazione del sangue”, cioè l’eliminazione di quei prodotti che un rene funzionante riesce normalmente a bilanciare e che, in questo caso, vengono accumulati nell’organismo. Con questo processo avviene anche l’eliminazione dell’acqua in eccesso e il ripristino dell’equilibrio elettrolitico che, in presenza di insufficienza renale cronica, risulta alterato.
Come si svolge una seduta di dialisi
Il sangue viene prelevato attraverso un ago di dimensioni più grandi rispetto ad un ago da prelievo e collegato ad una linea (un piccolo tubo di plastica di lunghezza variabile) che chiamiamo arteriosa. Poi, con l’ausilio di una macchina particolare detta rene artificiale, viene fatto passare attraverso un filtro che provvede a depurarlo. Il sangue “pulito” viene poi restituito al paziente attraverso una seconda linea, collegata ad un secondo ago delle stesse dimensioni, che chiamiamo venosa. La dialisi dura di solito quattro ore e viene eseguita tre volte per settimana.
L’esofago di Barrett è una condizione che si verifica quando il tessuto che riveste l’esofago viene sostituito con una nuova mucosa di tipo intestinale, generata dall’esofago stesso. Si tratta di una complicanza della malattia da reflusso gastroesofageo.
Chi soffre di esofago di Barrett ha un rischio maggiore di sviluppare il cancro all’esofago: per questo motivo il monitoraggio di questa condizione si basa su esami periodici volti a individuare la presenza nell’esofago di cellule precancerose.
DIAGNOSI
Molti soggetti affetti da esofago di Barrett non presentano alcun sintomo. Tuttavia, la maggior parte delle volte i sintomi sono sovrapponibili a quelli della malattia da reflusso gastroesofageo, anche se possono presentarsi in forma più accentuata e prolungata:
• bruciore frequente
• difficoltà a deglutire il cibo
• dolore toracico
• dolore addominale, soprattutto nella parte superiore
• tosse secca
TRATTAMENTI
Alleviare i sintomi della malattia da reflusso gastroesofageo può aiutare a diminuire il rischio di ammalarsi di esofago di Barrett. Può quindi essere utile:
• Suddividere l’alimentazione giornaliera in 4-5 piccoli pasti.
• Evitare cibi grassi e alcol e limitare il consumo di alimenti come cioccolato, menta, caffè e tè, che stimolano il reflusso.
• Non indossare cinture o abiti troppo stretti e non sdraiarsi prima che siano trascorse 2-3 ore dopo aver mangiato.
La gastrite è l’infiammazione della parete interna dello stomaco Spesso è associata allo stesso batterio che causa le ulcere (Helicobacter pylori), ma non mancano i casi in cui a scatenarla sono altri fattori, ad esempio alcuni farmaci o l’abuso di alcol. Se non trattata adeguatamente può portare alla formazione di ulcere e a sanguinamenti. Per questo se i sintomi non migliorano è bene rivolgersi al medico.
Può essere acuta, i cui sintomi compaiono all’improvviso, e cronica, che si sviluppa lentamente e perdura nel tempo. Nella maggior parte dei casi non è pericolosa, ma se i sintomi non migliorano rapidamente nonostante i trattamenti o se non vengono curati in modo adeguato la situazione può peggiorare, per esempio con lo sviluppo di ulcere.
In genere la gastrite compare quando la barriera difensiva dello stomaco si indebolisce, permettendo così agli acidi dei succhi gastrici di raggiungere la sua parete e infiammarla. Le cause di questo indebolimento possono essere molte e diverse fra loro: l’invecchiamento fisiologico, l’assunzione regolare di antidolorifici e l’abuso di farmaci antinfiammatori, il consumo eccessivo di alcol, lo stress, reazioni autoimmuni, il reflusso biliare o altre malattie (ad esempio il morbo di Crohn). Inoltre la gastrite può essere associata a infezioni batteriche, in particolare da parte di Helicobacter pylori.
DIAGNOSI
I principali sintomi della gastrite sono dolore, bruciore e crampi allo stomaco, nausea, vomito, una sensazione di pienezza dopo aver mangiato. In alcuni casi, però, il disturbo può essere asintomatico.
TRATTAMENTI
Per evitare la comparsa della gastrite è fondamentale ridurre il più possibile i suoi fattori di rischio, cercando, in particolare, di evitare lo stress e di non eccedere con il consumo di alcolici e con l’assunzione di farmaci, che potrebbero danneggiare la parete dello stomaco.
In genere l’insufficienza epatica si sviluppa lentamente nel corso di anni, ma nella forma acuta – detta anche fulminante – il fegato smette di funzionare improvvisamente nell’arco di pochi giorni. Si tratta di un’emergenza medica che richiede il ricovero ospedaliero. L’insufficienza epatica acuta mette infatti in serio pericolo la vita di chi ne è colpito: fra le sue complicazioni sono inclusi encefalopatia epatica, emorragie interne e insufficienza renale. Per questo è fondamentale rivolgersi subito a un medico in caso di comparsa improvvisa di sintomi come ittero della pelle e agli occhi, dolore alla parte superiore dell’addome, cambiamenti di personalità e alterazioni del normale comportamento. Mentre in alcuni casi è possibile risolvere la situazione con opportuni trattamenti, in altri l’unica soluzione è il trapianto di fegato.
Spesso l’insufficienza epatica acuta non sembra avere una causa precisa. Fra i possibili responsabili ci sono l’assunzione eccessiva di paracetamolo o di farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), alcuni medicinali (inclusi antibiotici e anticonvulsivanti) e alcuni fitoterapici (ad esempio la kava e l’efedra), i virus dell’epatite A, B, C, ed E, ed altri virus (come l’Epstein-Barr, il citomegalovirus e l’Herpes simplex), alcune tossine (come quella del fungo Amanita phalloides), l’epatite autoimmune, malattie vascolari (come la sindrome di Budd-Chiari) e malattie metaboliche rare (come la degenerazione epatolenticolare).
Fra i sintomi più comuni dell’insufficienza epatica acuta sono inclusi ingiallimento della pelle e della sclera degli occhi, dolore nella parte alta destra dell’addome, nausea, vomito, un senso di malessere generale, difficoltà di concentrazione, confusione, disorientamento e sonnolenza.
Per ridurre il rischio di insufficienza epatica acuta è importante:
• Seguire le istruzioni riportate nel foglietto illustrativo dei farmaci.
• Consumare alcol con moderazione.
• Evitare comportamenti a rischio come l’uso di sostanze stupefacenti, non utilizzare il profilattico, farsi fare piercing e tatuaggi in condizioni igieniche poco sicure.
• Vaccinarsi contro l’epatite.
• Non mangiare funghi se non si è sicuri che non siano velenosi.
• Evitare di inalare spray come insetticidi, fungicidi o altri prodotti tossici o di farli entrare in contatto con la pelle.
• Mangiare in modo sano, limitando il consumo di grassi.
• Mantenere il peso nella norma.
DIAGNOSI
Fra gli esami che possono essere prescritti per diagnosticare l’insufficienza epatica acuta sono inclusi:
• esami del sangue
• ecografie
• biopsie del fegato
TRATTAMENTI
Per trattare l’insufficienza epatica acuta è necessario il ricovero in ospedale. La terapia può prevedere:
• L’assunzione di farmaci per trattare l’avvelenamento
• Il trapianto di fegato
• L’assunzione di farmaci per ridurre l’edema cerebrale
• Il monitoraggio dell’insorgenza di eventuali infezioni con esami del sangue e delle urine
• L’assunzione di farmaci per ridurre il rischio di emorragie
L’insufficienza epatica cronica è una condizione che si insatura nel corso di molti mesi o addirittura anni, durante i quali il tessuto del fegato si distrugge gradualmente. La conseguenza è il mancato funzionamento dell’organo, sempre associato a fibrosi del fegato.
Le cause più comuni di insufficienza epatica cronica sono l’epatite B, l’epatite C, Il consumo eccessivo e prolungato di alcolici, la cirrosi, l’emocromatosi e la malnutrizione.
Nelle fasi iniziali è difficile riconoscere l’insufficienza epatica cronica; i primi sintomi (nausea, perdita di appetito, affaticamento, diarrea) sono infatti comuni a molte altre condizioni. Con l’aggravarsi della situazione i disturbi diventano però a loro volta più gravi. Tra i principali sono inclusi l’ittero, frequenti emorragie, gonfiori addominali, encefalopatia epatica, sonnolenza e coma.
Il modo migliore per prevenire l’insufficienza epatica cronica è limitare il rischio di contrarre l’epatite o di sviluppare una cirrosi. Il rischio di epatite può essere ridotto grazie al vaccino.
L’alcol deve essere consumato solo con moderazione.
Non bisogna maneggiare materiale sporco di sangue senza un’adeguata protezione.
Quando si decide di farsi fare un piercing o un tatuaggio è necessario assicurarsi che siano rispettate tutte le norme igieniche per evitare la diffusione di infezioni.
È sempre buona norma garantirsi un’alimentazione sana ed equilibrata.
DIAGNOSI
La diagnosi dell’insufficienza epatica cronica prevede una visita medica accurata in cui viene valutata la storia clinica del paziente. Inoltre possono essere prescritti:
• esami del sangue
• ecografie
• colangiografia
• TAC
• biopsie del fegato
TRATTAMENTI
Il primo obiettivo del trattamento dell’insufficienza epatica cronica è mettere in salvo eventuali porzioni del fegato ancora funzionanti. Nel caso in cui ciò non fosse possibile è necessario ricorrere a un trapianto di fegato.
L’insufficienza renale è quella condizione in cui i reni non riescono più a svolgere la propria funzione, che consiste nella regolazione dell’equilibrio idrico e salino, nell’eliminazione di acidi e scorie dall’organismo e nella produzione di ormoni (come l’eritropoietina). Quando l’insufficienza renale si sviluppa rapidamente, da poche ore a pochi giorni, viene definita come “acuta” ed è una condizione potenzialmente letale. Generalmente, se riconosciuta e trattata adeguatamente, può essere reversibile.
Quando invece l’insufficienza renale si sviluppa lentamente (nel corso di mesi o anni), viene definita come cronica. Essa è una condizione irreversibile e i sintomi si manifestano solo tardivamente, quando la malattia è già avanzata. In linea generale, si può rallentare l’evoluzione di questa condizione ma, se essa giunge al suo stadio più avanzato, rende necessario l’utilizzo della dialisi o il trapianto di rene.
L’insufficienza renale acuta può essere determinata da:
• Una diminuzione dell’apporto di sangue necessario ai reni per esplicare le proprie funzioni:
•Emorragia
• Disidratazione e ustioni
• Insufficienza cardiaca
• Shock circolatorio in corso di infezione o di reazione allergica
• Insufficienza epatica
Danno diretto ai reni:
• Trombosi delle vene o delle arterie renali
Infiammazione in corso di malattie autoimmuni (glomerulonefriti e vasculiti)
• Infezioni
• Alcuni farmaci, fra i quali chemioterapici, antibiotici, farmaci anti-infiammatori ecc.
•Mieloma multiplo, una malattia del sangue
• Tossici come metalli pesanti e droghe
Ostruzione delle vie urinarie, che impedisce all’urina prodotta dai reni di essere espulsa dall’organismo tramite la minzione:
• Ipertrofia prostatica benigna (prostata ingrossata)
• Calcolosi renale
•Tumori delle vie urinarie
• Danni ai nervi che controllano la vescica
L’insufficienza renale cronica, invece, può essere causata da:
• Diabete, sia di tipo 1 che 2
• Ipertensione arteriosa
• Depositi di colesterolo nei vasi renali (aterosclerosi)
• Glomerulonefriti e vasculiti Malattia policistica renale e altre malattie genetiche (ad es. Malattia di Fabry e sindrome di Alport)
• Ostruzione prolungata del tratto urinario, dovuta a tumori, calcolosi renale o ipertrofia prostatica benigna
• Reflusso vescicouretrale, una condizione che causa il reflusso dell’urina all’interno dei reni
• Pielonefrite, una infezione cronica del rene
• Mieloma multiplo (una malattia del sangue)
• Tossicità da farmaci (ad esempio, chemioterapici)
I sintomi dell’insufficienza renale acuta sono:
• Una riduzione del volume delle urine, anche se, in alcuni casi, esso potrebbe non subire variazioni.
• Ritenzione idrica, che si manifesta con gonfiore di gambe, caviglie o piedi.
• Sonnolenza
• Fiato corto, se i liquidi si accumulano nei polmoni (edema polmonare)
• Affaticamento
• Confusione mentale
• Convulsioni o coma (nei casi più gravi)
I sintomi dell’insufficienza renale cronica si sviluppano gradualmente nel tempo e possono essere confusi con quelli di altre patologie. Solitamente diventano evidenti solo quando i danni sviluppati sono difficilmente reversibili, e possono comportare:
• Nausea e vomito
• Perdita di appetito
• Affaticamento e debolezza
• Difficoltà nel prendere sonno
• Riduzione nella quantità di urina prodotta (soprattutto quando la malattia è già avanzata)
• Confusione mentale
• Contrazioni muscolari involontarie
• Gonfiore a piedi e caviglie
• Prurito persistente
• Fiato corto, se i liquidi si accumulano nei polmoni (edema polmonare)
• Ipertensione
DIAGNOSI
La diagnosi dell’insufficienza renale può essere effettuata attraverso:
• Esami del sangue e delle urine
• Ecografia
• Scintigrafia
• In alcuni casi, biopsia renale
TRATTAMENTI
In caso di insufficienza renale acuta è imperativo eliminare la causa scatenante (ad esempio disidratazione, infezione, farmaci etc). Collateralmente, è fondamentale riconoscere e trattare le complicanze dell’insufficienza renale che possono diventare pericolose per il paziente.
Fra queste: l’edema polmonare, l’acidosi (una condizione di eccessiva acidità del sangue) e l’iperpotassiemia (un’elevata concentrazione di potassio che può essere tossica per il cuore). A questo scopo è utile:
Bilanciare i fluidi corporei: il medico può raccomandare, a seconda del caso, la somministrazione di liquidi o di farmaci diuretici
Farmaci o utilizzo di soluzioni endovenose per controllare i livelli di potassio e acidi nel sangue
Dialisi temporanea, allo scopo di rimuovere le tossine eventualmente accumulate, quando la terapia medica non è più sufficiente
Nel caso di insufficienza renale cronica è compito del medico rallentare il decorso della malattia stessa, controllando una serie di fattori che si sono dimostrati responsabili di un accelerata progressione.
Tra questi:
• Controllo e terapia della malattia di base (ad esempio la glomerulonefrite)
• Controllo della pressione arteriosa
• Controllo della glicemia nei pazienti diabetici
• Controllo dell’acidosi
• Dieta ipoproteica in casi selezionati
• Controllo dei farmaci assunti dal paziente, con l’attenzione volta ad evitare i cosiddetti farmaci nefrotossici (come, ad esempio, i farmaci anti infiammatori) che possono far peggiorare la funzione renale.
• Prevenzione della nefrotossicità da mezzo di contrasto in occasione di alcune procedure radiologiche
In quest’ambito, il medico è tenuto a riconoscere e trattare altre complicanze dell’insufficienza renale cronica, fra cui:
• L’anemia, con la supplementazione di ferro e, eventualmente, l’utilizzo di eritropoietina
• La malattia minerale-ossea, tramite il controllo del bilancio calcio-fosforo e dell’acidosi
• Nei casi molto gravi di insufficienza renale, in cui la terapia medica non è più sufficiente a garantire l’equilibrio dell’organismo, diventa necessario il ricorso alla dialisi o al trapianto.
Il morbo di Crohn è caratterizzata da un’infiammazione cronica dell’intestino, che può colpire tutto il tratto gastrointestinale, dalla bocca all’ano. In circa il 90% dei casi, la malattia colpisce maggiormente l’ultima parte dell’intestino tenue (ileo) e il colon.
Le ulcere derivate dall’infiammazione, se non curate, possono portare a creare dei restringimenti intestinali (stenosi) o approfondirsi fino a “bucare” l’intestino e a toccare gli organi circostanti (fistole). Tali complicanze richiedono spesso un trattamento chirurgico, anche se la malattia può tornare nel punto in cui viene eseguita la resezione chirurgica. Nonostante ciò, la maggior parte dei pazienti, con le cure e i controlli necessari, possono ben controllare la patologia e condurre una vita regolare.
Le cause della malattia non sono note. Sembra che una combinazione di fattori, quali la predisposizione genetica, fattori ambientali, fumo di sigaretta, e alterazioni della flora batterica intestinale e della risposta immunitaria, possano scatenare l’infiammazione intestinale. Difatti, le cellule del sistema immunitario “attaccano” in maniera continua l’intestino e contribuisce a perpetuare l’infiammazione. Anche se alcuni geni sembrano essere coinvolti, non è una malattia ereditaria, né genetica.
Il morbo di Crohn può manifestarsi in maniera diversa a seconda delle localizzazioni intestinali. La maggior parte delle volte può manifestarsi con diarrea cronica (cioè che persiste per più di 4 settimane), spesso notturna, associata a dolori e crampi addominali, talvolta con perdite di sangue misto alle feci, e con febbricola che insorge alla sera, oppure con dolori articolari, o con altre manifestazioni non intestinali. Spesso ci può essere un calo di peso importante. A volte, si può manifestare a livello anale con fistole o raccolte di pus (ascessi).
In una buona percentuale dei casi, la malattia non dà sintomi e viene scoperta solo per caso.
DIAGNOSI
Le metodiche per diagnosticare la morbo di Crohn sono:
• La colonscopia con visualizzazione dell’ileo e con biopsia intestinale: serve a valutare lo stato della mucosa intestinale e a valutare se, a livello microscopico, ci sono aspetti tipici dell’infiammazione cronica (alterazioni strutturali del tessuto, infiltrati di globuli bianchi). È essenziale per la diagnosi.
• L’ecografia delle anse intestinali: permette di valutare la parete intestinale in maniera non invasiva, per escludere o diagnosticare complicanze da malattie.
• La risonanza magnetica addominale con mezzo di contrasto che permette di localizzare l’infiammazione, di valutare eventuali complicanze e di valutare l’estensione e l’attività infiammatoria. È una procedura non invasiva che non espone a raggi dannosi.
• L’Entero-TC con mezzo di contrasto, che ha lo stesso valore diagnostico della risonanza, ma dev’essere utilizzata con cautela poiché espone ai raggi X.
• L’esofagogastroduodenoscopia serve a valutare se esiste una localizzazione di malattia a livello della parte alta dell’intestino, soprattutto alla diagnosi.
• L’enteroscopia con video capsula è una metodica endoscopica non invasiva per diagnosticare lesioni del piccolo intestino che non sono accessibili con la colonscopia. È limitata dalla impossibilità di fare biopsie e dal rischio di ritenzione, in caso di stenosi intestinali.
• L’esplorazione chirurgica sotto anestesia è una metodica chirurgica che va impiegata in casi selezionati di morbo di Crohn perianale. È assieme diagnostica e curativa.
TRATTAMENTI
La terapia per la morbo di Crohn tende a spegnere l’infiammazione intestinale, attraverso l’azione sui meccanismi cellulari e molecolari dell’intestino e del sistema immunitario.
I trattamenti comprendono:
• La mesalazina (5-ASA) che agisce direttamente come anti-infiammatorio sulla mucosa intestinale durante il transito intestinale
• Gli antibiotici intestinali (fluorochinolonici, metronidazolo, rifaximina) che aiutano a equilibrare la flora batterica, possibile corresponsabile dell’infiammazione, oppure a ridurre o eliminare gli ascessi
• L’azatioprina o la 6-mercaptopurina (immunosoppressori) che inducono la morte della gran parte dei globuli bianchi attivati, responsabili dell’infiammazione
• Gli steroidi che hanno una potente azione anti-infiammatoria a livello di tutto l’organismo, sopprimendo la risposta immunitaria e modulandola
• Il metotrexate che agisce, con meccanismi diversi, come immunosoppressore che distrugge buona parte dei globuli bianchi attivati
• I farmaci biologici (infliximab, adalimumab), anticorpi biotecnologici che bloccano selettivamente una delle molecole principali responsabili dell’infiammazione
• Chirurgia che serve a rimuovere le complicanze irreversibili della morbo di Crohn, quando i farmaci non hanno spazio terapeutico
• Farmaci sperimentali che possono avere vari meccanismi d’azione e che solo Centri d’eccellenza selezionati possono somministrare nell’ambito di studi clinici.
Il morbo di Wilson, noto anche come “degenerazione epatolenticolare”, impedisce un corretto smaltimento del rame, un metallo importante per lo sviluppo dei nervi, delle ossa, del collagene e della melanina, ma il cui eccesso deve essere eliminato attraverso la bile per evitare il raggiungimento di livelli pericolosi per l’organismo. Per questo se la malattia non viene trattata in modo opportuno può dare luogo a serie complicazioni, come la cirrosi, l’insufficienza epatica, il cancro al fegato, problemi neurologici, disturbi renali e, nella peggiore delle ipotesi, il decesso.
A causare la malattia è una mutazione genetica che in genere viene ereditata dai genitori, che possono essere portatori senza manifestare la malattia (per questo si parla di “mutazione recessiva”). Questa mutazione altera il funzionamento di una proteina responsabile del trasporto all’esterno del fegato del rame introdotto in eccesso con l’alimentazione. Il metallo, quindi, si accumula inizialmente nel fegato, ma con il tempo esce da quest’organo andando a minacciare la salute di altre parti dell’organismo, in particolare cervello, occhi e reni.
I sintomi del morbo di Wilson vengono spesso confusi con quelli di altri disturbi. A seconda dell’organo danneggiato possono infatti comparire depressione, difficoltà a coordinare i movimenti o a parlare, deglutire o camminare, perdita di bava, predisposizione alle contusioni, fatica, tremori involontari, dolore alle articolazioni, perdita dell’appetito, nausea, rash cutanei, gonfiori a braccia e gambe e ittero.
Chi ha parenti di primo grado affetti da morbo di Wilson potrebbe correre un rischio maggiore di sviluppare il morbo di Wilson. In casi di questo tipo può essere importante chiedere al proprio medico se è il caso di sottoporsi a test genetici per escludere di essere portatori della mutazione che causa la malattia o confermare i sospetti e potersi comportare in modo da prevenire l’insorgenza dei sintomi del morbo.
DIAGNOSI
La diagnosi del morbo di Wilson può prevedere:
• Analisi del sangue e delle urine per monitorare l’attività del fegato e verificare i livelli ematici di rame e di ceruloplasmina, una proteina che trasporta il rame nel sangue e le cui quantità sono in genere ridotte in chi è affetto da questa malattia genetica;
• CT o RM alla testa;
• Visite oculistiche per verificare l’eventuale presenza di depositi di rame nell’occhio o di una particolare forma di cataratta associata al morbo;
• Biopsia epatica;
• Test genetici per verificare la presenza della mutazione associata alla malattia.
TRATTAMENTI
In seguito alla diagnosi il medico può prescrivere l’assunzione di farmaci (in genere agenti chelanti il rame, cioè in grado di legarlo) per ridurre le quantità di rame nell’organismo.
Raggiunto questo obiettivo bisogna evitare un nuovo accumulo del metallo con l’assunzione di molecole come lo zinco acetato, che riduce l’assorbimento del rame dagli alimenti.
In alcuni casi il medico può consigliare di limitare il consumo di cibi ricchi di rame almeno durante il primo anno di terapia. Fra gli alimenti cui prestare attenzione sono inclusi il fegato, crostacei e molluschi, i funghi, la frutta secca e quella essiccata, il cioccolato, l’avocado e la crusca. Meglio, inoltre, fare attenzione ai livelli di rame nell’acqua.
Se il fegato è seriamente compromesso può essere necessario un trapianto.
La pancreatite acuta è un’infiammazione a carico del pancreas che insorge in maniera improvvisa. Il quadro patologico è molto variabile e può presentare forme di pancreatite lieve, risolvibili in pochi giorni, e forme più gravi, che possono anche avere esito fatale.
La pancreatite insorge più frequentemente in seguito a una calcolosi biliare, patologia che colpisce più di frequente la popolazione femminile. Anche l’alcolismo, che coinvolge più maggiormente gli uomini, è un fattore di rischio che può agevolare l’insorgenza della pancreatite.
Anche anomalie anatomiche del pancreas, tumori, aumento dei trigliceridi nel sangue o l’assunzione di alcuni farmaci possono causare la comparsa della malattia.
La pancreatite acuta può anche essere una complicanza di manovre endoscopiche sul pancreas.
La pancreatite acuta si manifesta più frequentemente con un importante dolore addominale che spesso si associa a nausea, vomito e febbre. Nelle forme più lievi di pancreatite i sintomi possono regredire rapidamente, mentre in quelle più gravi possono evolvere in setticemia, shock, insufficienza renale e respiratoria.
DIAGNOSI
La sintomatologia dolorosa avvertita dal paziente permette allo specialista di orientare la diagnosi: è molto comune infatti un dolore alla parte alta dell’addome (a sbarra), che può anche diffondersi al dorso (a cintura). Grazie agli esami del sangue è possibile verificare se i valori di alcuni enzimi (amilasi e lipasi) hanno subito un aumento; il pancreas produce fisiologicamente questi enzimi, ma se il tessuto pancreatico è danneggiato queste sostanze passano nel circolo sanguigno e ne vengono pertanto registrati i valori aumentati nel sangue.
È importante che lo specialista riconosca tempestivamente le forme severe di pancreatite acuta perché in questi casi occorrerà intervenire sul paziente in maniera mirata e immediata.
Altri esami del sangue e la Tac dell’addome, eseguita con mezzo di contrasto, consentono di distinguere in fase di diagnosi le forme lievi da quelle più gravi.
Grazie all’ecografia è possibile verificare la presenza di calcoli biliari, che sono la causa più frequente della pancreatite.
TRATTAMENTO
Sono rari i casi di pancreatite acuta in cui è necessario intervenire chirurgicamente con urgenza. Se a causare la patologia sono i calcoli biliari, il paziente sarà sottoposto a un intervento di colecistectomia (asportazione della colecisti), in genere praticato per via laparoscopica.
Il trattamento per pancreatite acuta prevede inizialmente digiuno e somministrazione endovenosa di liquidi ed elettroliti. Ai pazienti affetti da forme più gravi si prescriveranno anche farmaci ad azione antiproteasica e antibiotici.
Le forme lievi (circa il 90% del totale) si risolvono solitamente in 7-15 giorni, senza lasciare traccia. Le forme più severe invece, che possono necessitare di differenti interventi chirurgici, registrano una mortalità del 10-20%. In questi casi gli interventi chirurgici sono molto difficili e puntano a drenare gli ascessi intraddominali che si formano nel pancreas e il tessuto pancreatico infetto e necrotico.
La pancreatite cronica è un esito di una prolungata infiammazione a carico del pancreas di lieve entità che comporta una lenta e progressiva sostituzione del tessuto pancreatico con tessuto cicatriziale, fibroso e non funzionante.
Questo tipo di pancreatite insorge in genere per un’assunzione cronica di alcol, la patologia però può colpire anche i non bevitori per una predisposizione genetica oppure in seguito a un’ostruzione cronica dello scarico dei succhi pancreatici.
La pancreatite cronica può essere asintomatica in fase iniziale e pertanto non generare alcun disturbo nel paziente. La progressione della malattia può accompagnarsi ai seguenti sintomi:
• Dolore addominale cronico: di lunga durata, che può ripresentarsi intervallandosi a periodi di stasi. La sintomatologia dolorosa si manifesta in genere dopo aver mangiato, ma può presentarsi anche a distanza dai pasti;
• Maldigestione degli alimenti: a causa di una diminuita produzione di succhi digestivi da parte del pancreas i cibi transitano nell’intestino senza essere stati digeriti e assorbiti in maniera corretta. Ne conseguono feci poco formate, talvolta diarroiche. Con il passare del tempo il paziente che soffre di maldigestione tende a dimagrire;
• Diabete: anche l’innalzamento dei valori di glicemia (livello di zuccheri nel sangue) è dovuto a un’insufficiente funzionalità pancreatica; nello specifico si tratta di una diminuita produzione di insulina, deputata all’abbassamento della glicemia, responsabile della comparsa del diabete.
DIAGNOSI
Esami del sangue: utili per verificare la corretta funzionalità del pancreas, sia nella produzione di enzimi digestivi sia per la comparsa di diabete. Il dosaggio della glicemia consente di valutare la presenza di diabete.
Esame delle feci: il cui obiettivo è valutare la funzione digestiva. L’elastasi fecale è un enzima prodotto dal pancreas, il cui valore nelle feci è diminuito nei casi di maldigestione a causa pancreatica.
Ecografia, TAC e/o RMN (risonanza magnetica nucleare): consentono di rilevare alterazioni a carico del pancreas ( come per esempio un’ostruzione del dotto pancreatico o una pseudocisti) e osservare i rapporti tra il pancreas e le strutture circostanti.
Ecoendoscopia e Colangio-Pancreatografia-Retrograda-Endoscopica (ERCP): esami endoscopici tramite i quali è possibile individuare eventuali alterazioni morfologiche dei dotti pancreatici e attuare manovre operative sul pancreas (sfinterotomia, posizionamento di protesi, etc).
TRATTAMENTO
Il trattamento per la pancreatite cronica può far ricorso a:
• Modifiche al regime alimentare, eliminando per esempio l’assunzione di alcolici;
• Assunzione di antidolorifici;
• Preparati a base di enzimi pancreatici;
• Terapia con ipoglicemizzanti per via orale o insulina.
Qualora si manifestassero riacutizzazioni della patologia, con forte sintomatologia dolorosa, il paziente verrà ricoverato in ospedale e sottoposto a digiuno e a somministrazione endovenosa di liquidi.
Le complicanze sono abbastanza frequenti nel corso della malattia e possono essere:
• Compressione del pancreas sul coledoco (ostruzione biliare, ittero) o sul duodeno (ostruzione al passaggio del cibo, vomito);
• Inefficacia degli antidolorifici;
• Comparsa di pseudocisti, raccolte liquide peripancreatiche che possono esercitare una compressione sullo stomaco o su altri organi, con conseguenti dolore addominale o disturbi dell’alimentazione.
La comparsa di complicanze può necessitare di trattamenti invasivi di tipo chirurgico o endoscopico come sfinterotomia o posizionamento di protesi.
La pancreatico-digiuno anastomosi è indicata nel caso in cui vi sia una ostruzione al passaggio dei succhi pancreatici, con dilatazione del dotto pancreatico. Questo intervento migliora lo scarico dei succhi pancreatici.
Gli interventi che possono essere indicati sono l’epatico-digiunostomia, la gastro-digiunostomia o la duodenocefalopancreasectomia questi trattamenti sono in genere risolutivi rispetto alle complicanze, ma non incidono sull’evoluzione della pancreatite cronica.
Le pseudocisti del pancreas sono raccolte di liquido con una parete fibrosa, la cui formazione al di fuori del pancreas può avvenire in seguito a una pregressa pancreatite acuta, in concomitanza a una pancreatite cronica o per un grave trauma addominale. Queste formazioni possono essere in comunicazione con i dotti pancreatici. La somiglianza d’aspetto potrebbe far confondere una pseudocisti con un tumore cistico pancreatico.
Le pseudocisti del pancreas possono essere dovute a un episodio di pancreatite acuta, possono manifestarsi nel corso di una pancreatite cronica o possono insorgere in seguito a un violento trauma all’addome.
Le pseudocisti del pancreas sono spesso asintomatiche. Se vanno a comprimere gli organi circostanti però possono causare:
• Nausea o vomito, se la compressione interessa il duodeno;
• Ittero (colorito giallo della cute e degli occhi), se la pseudocisti va a comprimere il coledoco;
• Dolore di modesta entità avvertito alla parte alta dell’addome.
DIAGNOSI
Una pseudocisti non va confusa con un tumore cistico: si tratta di due patologie differenti e che necessitano di trattamenti molto diversi. Se il paziente è affetto da una pancreatite cronica o ha avuto una pancreatite acuta grave, una formazione liquida pancreatica o peripancreatica è in genere da ricondurre a una pseudocisti. Qualora in un paziente – che non abbia avuto una pregressa malattia pancreatica oppure sia stato affetto da una pancreatite acuta lieve – sia riscontrata una raccolta liquida, questa può essere ricondotta a un tumore cistico del pancreas.
L’ecografia, la TAC, la Risonanza Magnetica e l’ecoendoscopia consentono di rilevare la presenza di anomalie pancreatiche e i rapporti che intercorrono tra il pancreas e le strutture limitrofe.
TRATTAMENTI
In caso di pseudocisti asintomatiche non è necessario intervenire ma è sufficiente un monitoraggio. Se invece sono sintomatiche o voluminose, il paziente verrà sottoposto a un intervento chirurgico o a una procedura endoscopica. La pseudocisto-digiunostomia consiste nel collegare definitivamente la pseudocisti a un’ansa intestinale.
Il reflusso gastroesofageo (MRGE) si verifica quando c’è risalita del contenuto acido nell’esofago. Tra l’esofago e lo stomaco c’è una valvola, lo sfintere esofageo inferiore, che permette il passaggio verso il basso del cibo, bloccandone il ritorno verso l’alto (con l’unica concessione in caso di vomito). La funzione dello sfintere esofageo inferiore è anche quella di impedire che i succhi gastrici presenti nello stomaco risalgano verso l’esofago, o comunque di permetterne un passaggio di modeste quantità. Quando però non si ha una corretta chiusura dello sfintere questa funzione viene meno e gli acidi penetrano nell’esofago irritandone la mucosa interna e scatenando i sintomi propri del cosiddetto reflusso. Questa condizione può divenire patologia quando il passaggio avviene con continuità o quando il contenuto dei succhi gastrici è troppo acido.
Il reflusso può essere definito malattia quando si presenta almeno una volta alla settimana.
Tra le cause di reflusso, si registrano:
• l’alterata funzionalità dello sfintere
• il non corretto funzionamento della peristalsi dell’esofago (movimento di contrazione della muscolatura dell’esofago) e, spesso in associazione, un • rallentato svuotamento gastrico
• alterazioni salivari
• la gravidanza
• l’obesità
• il fumo di sigarette
• la presenza di un’ernia iatale
• la presenza di ansia e stress.
• una dieta alimentare scorretta
I sintomi del reflusso gastroesofageo sono il bruciore all’altezza dell’esofago, retrosternale, con la sensazione spiacevole dell’irradiamento dell’acidità fino alla gola e conseguente rigurgito. Spesso ai disturbi propri del reflusso si associano altri disturbi legati ad altre patologie, come tosse cronica, asma, laringiti o faringiti, raucedine.
DIAGNOSI
La diagnosi del reflusso gastroesofageo viene eseguita attraverso il cosiddetto PPI test che prevede la somministrazione di farmaci specifici antisecretivi acidi per la durata di due settimane. Nel caso in cui i sintomi scompaiano, la diagnosi di reflusso può dirsi confermata.
Altri esami di approfondimento diagnostico, sono:
• l’esofago-gastroduodenoscopia, che permette di visualizzare direttamente esofago stomaco e duodeno attraverso una sonda che contiene una telecamera e una fonte luminosa
• la PH impedenzometria, che viene eseguita quando l’esofago-gastroduodenoscopia non produce risultati e che prevede l’introduzione di un sondino che dal naso viene condotto fino all’esofago e che registra l’eventuale rigurgito di contenuto gastrico nell’esofago stesso nel corso di 24 ore
• la manometria esofagea, che utilizzando un sondino introdotto dal naso e collegato a un computer permette di monitorare i movimenti dell’esofago e dello sfintere esofageo inferiore.
TRATTAMENTI
Il reflusso gastroesofageo può essere curato con tre tipi di farmaci:
• i farmaci procinetici, che agevolano uno svuotamento più veloce dello stomaco
• i protettori della mucosa esofagea
• gli inibitori della pompa protonica o gli antagonisti dei recettori H2, che riducono la secrezione acida gastrica.
Se il trattamento farmacologico non ottiene risultati può essere necessario un intervento chirurgico, eseguito con tecniche mini invasive, con cui si provvede al ripristino della funzionalità dello sfintere gastroesofageo. Ma l’intervento chirurgico non sempre risulta essere risolutivo: in molti casi coloro che si sono sottoposti all’intervento devono proseguire con trattamenti farmacologici, anche se con dosaggi inferiori.
La rettocolite ulcerosa è una malattia caratterizzata da un’infiammazione cronica dell’intestino, che colpisce sempre il retto e può estendersi senza soluzione di continuità a parte o tutto il colon. L’infiammazione provoca delle lesioni ulcerose responsabili dei sintomi intestinali. L’andamento della malattia è caratterizzato dall’alternarsi di episodi acuti seguiti da periodi di remissione clinica. La frequenza degli attacchi può variare fino quasi a susseguirsi senza periodi di benessere.
Le cause della malattia non sono ancora note. L’ipotesi più probabile è che fattori ambientali, quali microorganismi batterici intestinali, in presenza di un assetto genetico predisponente possano scatenare l’attacco da parte del sistema immunitario in cui rimane coinvolto anche l’intestino.
La rettocolite ulcerosa si manifesta con diarrea ematica, anche notturna, associata a dolori e crampi addominali, che spesso si risolvono con l’evacuazione. Spesso è presente urgenza con difficoltà a trattenere lo stimolo defecatorio e una evacuazione di piccolo volume o anche solo di muco e sangue.
Nelle localizzazioni di malattia esclusivamente al retto può essere presente, al posto della diarrea, una stitichezza anche severa. Gli episodi più severi (15%) sono caratterizzati dalla comparsa di febbre e di disidratazione e necessitano di un ricovero urgente in Ospedale per poter praticare la terapia adeguata a base di cortisonici, immunosoppressori, antibiotici e supporto nutrizionale in vena. Solo in casi rari refrattari alla terapia si rende necessario un intervento di colectomia totale. Fino al 35% dei casi sono presenti delle manifestazioni extra-intestinali: artralgie e artriti localizzate sia alla articolazioni periferiche che alla colonna vertebrale; manifestazioni dermatologiche quali dei noduli sottocutanei, arrossati e dolenti o delle lesioni purulente che tendono ad ingrossarsi localizzate spesso agli arti inferiori; episcleriti e uveiti; malattie epatobiliari.
Infine l’infiammazione cronica può provocare nell’arco di anni delle lesioni precancerose con un aumentato rischio di sviluppare un carcinoma intestinale rispetto alla popolazione generale.
DIAGNOSI
Le metodiche per diagnosticare la rettocolite ulcerosa sono:
• La colonscopia con visualizzazione dell’ileo e con biopsie intestinali: serve a valutare lo stato della mucosa intestinale e l’estensione di malattia. Le biopsie tramite l’esame istologico servono a valutare se, a livello microscopico, ci sono aspetti tipici dell’infiammazione cronica (alterazioni strutturali del tessuto, infiltrati di globuli bianchi). È essenziale per la diagnosi.
• Cromoendoscopia o narrow band imaging: sono tecniche aggiuntive in corso di colonscopia che permettono di visualizzare con maggior dettaglio le aree sospette per displasia del colon.
• Calprotectina fecale: indicata come esame di primo livello in pazienti con diarrea e dolori addominale. La sua presenza ad alta concentrazione nelle feci aumenta il sospetto che si tratti di una rettocolite ulcerosa. Indicata anche per monitorare la malattia e la risposta alle terapie in modo non invasivo.
• Rx addominale: nei casi severi dà una indicazione sulla sede e l’estensione di malattia e sull’eventale sviluppo di complicanze.
• L’ecografia delle anse intestinali: permette di valutare la parete intestinale in maniera non invasiva. Indicata come esame di primo livello in pazienti con dolori addominali e diarrea e per monitorare la malattia e la risposta alle terapie in modo non invasivo.
TRATTAMENTI
La terapia per la rettocolite ulcerosa è mirata a spegnere l’infiammazione intestinale, attraverso l’inibizione di processi coinvolti nell’attivazione della cascata infiammatoria e del sistema immunitario.
I trattamenti comprendono:
• La mesalazina (5-ASA) è un farmaco ad azione topica che agisce direttamente come anti-infiammatorio sulla mucosa intestinale.
• Gli steroidi hanno una potente azione anti-infiammatoria a livello di tutto l’organismo, e modulano la risposta immunitaria.
• L’azatioprina o la 6-mercaptopurina sono degli immunosoppressori che inducono la morte della gran parte dei globuli bianchi attivati, responsabili dell’infiammazione.
• Ciclosporina un immunosoppressore che agisce inibendo la funzione dei linfociti, responsabili dell’attivazione del sistema immunitario, e che di solito si usa nei casi di colite severa resistente al cortisone.
• I farmaci biologici (infliximab), anticorpi monoclonali biotecnologici, bloccano selettivamente una delle molecole principali (TNF) responsabili dell’infiammazione.
• Intervento chirurgico di colectomia totale quando i farmaci non hanno spazio terapeutico.
• Farmaci sperimentali che possono avere vari meccanismi d’azione e che solo Centri d’eccellenza selezionati possono somministrare nell’ambito di studi clinici.
La stipsi, o stitichezza, è un’alterazione delle funzioni dell’intestino che provoca una difficoltà a evacuare le feci. In genere si ritiene ci sia stipsi se le evacuazioni intestinali sono meno di tre alla settimana.
Ma non è solo una questione di frequenza: altri sintomi di stitichezza sono la durezza e la forma irregolare delle feci, la sensazione di non avere evacuato del tutto e quella di “blocco” intestinale, con conseguenti dolori e crampi diffusi nell’area addominale.
La stipsi può essere causata da uno scarso apporto di fibre nella dieta osservata o dallo scarso movimento fisico effettuato. Esistono anche altre cause dovute a cambiamenti, anche momentanei, degli stili di vita, come l’invecchiamento, la gravidanza, il cambio di ambiente durante un viaggio.
La stipsi può essere anche conseguenza di altre patologie, come ad esempio il morbo di Parkinson o l’ictus, o può essere causata dall’uso di certi farmaci.
DIAGNOSI
La diagnosi della stipsi viene fatta anzitutto attraverso l’osservazione delle feci.
Una diagnosi attenta deve però basarsi anche su altre indagini più approfondite, come il clisma opaco, la colonscopia, la defecografia, la manometria anorettale e lo studio dei tempi di transito intestinale. In linea di massima, la stipsi può essere di due tipi:
• stipsi da rallentato transito (quando la peristalsi alterata del colon non permette il transito del contenuto colico con la regolare velocità)
• stipsi da ostruita defecazione (quando il problema riguarda la parte finale del retto, quella rettoanale).
TRATTAMENTI
La stipsi può essere trattata attraverso modifiche dello stile di vita e del regime alimentare – prevedendo un maggiore consumo di fibre e di liquidi – o con la prescrizione da parte del medico di farmaci che hanno l’obiettivo di ammorbidire le feci facilitandone l’evacuazione.
Nei casi in cui la stipsi ha origine nervose o muscolari il medico può consigliare una terapia di neuromodulazione sacrale – chiamata anche “stimolazione delle radici sacrali” – che prevede l’installazione sottopelle di un piccolo neurotrasmettitore che invia impulsi elettrici ai nervi deputati al controllo degli sfinteri, così da aiutarli a funzionare in modo corretto.
Per “tumore all’intestino” si intende una crescita di cellule maligne nell’intestino crasso (cieco e colon), ovvero l’ultima parte dell’intestino, o nel retto. Per questo motivo è più frequente che si parli di cancro al colon o di cancro al retto. Esistono anche forme a partenza dall’intestino tenue ma sono molto rare.
Il tumore all’intestino è molto diffuso e in alcuni casi può essere mortale. Se diagnosticato precocemente, però, vi sono alte probabilità di guarigione.
La maggior parte dei tumori del colon sono di origine sporadica, cioè non hanno fattori scatenanti noti, ma il cancro al colon può formarsi a seguito di malattie infiammatorie croniche, quali la colite ulcerosa o il morbo di Crohn. Circa il 25% dei tumori dell’intestino è invece da riferire ad una predisposizione familiare: spesso chi ha parenti che hanno sviluppato questo cancro è più facilmente soggetto a contrarlo, e vi sono particolari patologie genetiche (sindromi) in cui la probabilità di sviluppare un tumore è elevata.
DIAGNOSI
Una diagnosi precoce del tumore dell’intestino (colon) è in grado di aumentare di molto le probabilità di guarigione. Il problema è che questa patologia spesso non mostra sintomi apparenti o evidenzia sintomi – come la mancanza di appetito, l’anemia, una stanchezza diffusa – simili a quelli di altre patologie addominali o intestinali. È necessario dunque sottoporsi a visite specialistiche quando si rientra in una delle categorie a rischio, determinate dall’età, dalla storia medica personale e dalla storia medica familiare.
L’indagine più semplice da effettuare è la ricerca del sangue occulto fecale (SOF), applicabile in tutti i pazienti, consigliata dopo i 45-50 anni. In caso di positività, dopo adeguata correlazione con i dati clinici, andranno effettuati ulteriori accertamenti (colonscopia).
In caso si appartenga ad un gruppo familiare con una particolare predisposizione o si sia affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali è necessario inoltre sottoporsi a una colonscopia a partire dai 50 anni o da una età di 10 anni inferiore all’età del familiare più giovane che abbia sviluppato la malattia. Nelle sindromi genetiche la sorveglianza deve essere più frequente e da età più giovanile. A partire dai 50 anni, infatti, piccole lesioni sono presenti in una persona su cinque. La scoperta di piccoli polipi e di lesioni non comporta la certa presenza di un tumore: si può trattare di situazioni benigne, dovute a stati infiammatori, stitichezza o altri piccoli problemi registrati a livello intestinale.
TERAPIA
Il trattamento dipende dallo stadio di avanzamento della malattia. Se questa è in fase iniziale si procede di solito con un intervento chirurgico, che prevede l’asportazione del tratto di intestino interessato dal tumore e che può rappresentare la soluzione definitiva al problema. L’intervento chirurgico può essere seguito da un periodo di terapia adiuvante, che ha il fine di evitare una recidiva, cioè che le cellule formino, in quella stessa area o a distanza, un’altra lesione tumorale.
Se il tumore è in stato avanzato, invece, è facile che abbia coinvolto altri organi, primo fra tutti il fegato. A causa della sua estensione è facile che non sia consentito un intervento chirurgico curativo.
Nei casi in cui sono presenti metastasi a distanza, vengono considerati diversi approcci in base alla fase della malattia: chirurgico, chemioterapico, radioterapico.
Sintesi Il tumore del pancreas è una patologia oncologica che colpisce il pancreas, la ghiandola di 15 centimetri che si trova nell’addome e che ha il compito di produrre i succhi pancreatici – che contengono enzimi e contribuiscono alla digestione –, l’insulina e altri ormoni che hanno la funzione di immagazzinare l’energia prodotta dal consumo degli alimenti.
È la neoplasia con il più alto tasso di mortalità: nel 99% dei casi non concede un periodo di vita superiore ai 5 anni.
DIAGNOSI
Per individuare con certezza un tumore al pancreas possono essere necessari molti esami, a partire da quelli del sangue.
In caso di incertezza il medico, dopo avere effettuato la visita specialistica può disporre l’esecuzione di una TAC, attraverso cui “fotografare” il pancreas e gli organi a esso adiacenti evidenziando eventuali anomalie. Alternative o affiancate alla Tac possono essere un’ecografia e un’ecografia endoscopica per “visualizzare” la ghiandola pancreatica attraverso l’uso di onde sonore. In casi particolari possono essere prescritti anche una risonanza magnetica, una PET, una ERCP (pancreatografia retrograda endoscopica) o una biopsia.
TRATTAMENTI
Il tumore del pancreas può essere trattato radicalmente solo se diagnosticato ai primi stadi e asportato chirurgicamente.
Esistono però altri trattamenti in grado di prolungare l’attesa di vita di chi è colpito da questo tumore. In caso di neoplasie inoperabili è possibile impiegare la radioterapia e la chemioterapia.
Il loro utilizzo viene prescritto dal medico specialista – che può essere il chirurgo, un oncologo, un gastroenterologo e un radioterapista – in base alla posizione del tumore, alla sua diffusione, all’età del paziente.
I reni sono due organi posti simmetricamente nella parte posteriore del dorso, che hanno il compito di filtrare il sangue e le impurità, di aiutare il controllo della pressione sanguigna e di regolare la produzione dei globuli rossi. La causa del tumore al rene è sconosciuta, tuttavia è certo che la neoplasia si origina in seguito all’alterazione nel DNA di alcune cellule renali, che porta a una proliferazione incontrollata delle stesse. L’accumulo delle cellule malate, che crescono e si dividono molto rapidamente, forma il tumore, che con il tempo può arrivare a estendersi ad altri organi, anche distanti dai reni.
I fattori che possono aumentare il rischio di ammalarsi sono:
• l’età: il rischio cresce con l’aumentare dell’età e il picco di incidenza è intorno ai 60 anni;
• il sesso: gli uomini hanno più probabilità di ammalarsi delle donne;
• il fumo: i fumatori sono più a rischio e il rischio diminuisce se si smette di fumare;
• l’obesità;
• l’ipertensione;
• l’esposizione per motivi professionali a determinate sostanze chimiche, ad esempio l’amianto e il cadmio;
• sottoporsi a dialisi per lunghi periodi di tempo;
• la sindrome di Von Hippel-Lindau, una patologia ereditaria rara;
• il carcinoma papillare ereditario, un tumore renale ereditario.
DIAGNOSI
La diagnosi di tumore renale spesso è accidentale e precedente alla comparsa dei sintomi.
Per stabilire l’eventuale presenza di cancro del rene e la sua estensione, sono utili le seguenti metodiche diagnostiche:
• Ecografia: è lo strumento di diagnostica per immagini che in maniera del tutto non invasiva e con elevata accuratezza oggi è utilizzato in prima battuta per riconoscere una dilatazione delle cavità renali e o degli ureteri e/o per individuare masse solide o cistiche dei reni.
• TAC: utilizza radiazioni ionizzanti ed è la tecnica più efficace per riconoscere anche millimetriche calcificazioni, oltre che, mediante il ricorso all’uso di un mezzo di contrasto, lesioni espansive dei reni. E’ inoltre lo strumento più adatto per guidare biopsie su eventuali lesioni dei reni.
• Risonanza Magnetica: in maniera non invasiva, utilizzando campi magnetici e onde di radiofrequenza, la metodica è utilizzata ad oggi per evidenziare le vie urinarie e i reni, per escludere dilatazioni patologiche dei calici e o degli ureteri e per meglio identificare masse renali altrimenti individuate.
• PET (Tomografia ad Emissione di Positroni): è una metodica diagnostica che utilizza un radiofarmaco che si accumula nelle lesioni neoplastiche caratterizzate da elevato metabolismo. La sua applicazione può essere limitata nelle neoplasie renali perché parte del radiofarmaco viene eliminato proprio per via renale. Risulta più utile per la valutazione di metastasi in sede renale da altre neoplasie.
• Agobiopsia: è una tecnica mini-invasiva per il prelievo di un campione di tessuto che, in casi selezionati, è in grado di confermare attraverso un esame istologico (al microscopio) la presenza o meno di un carcinoma del rene prima dell’intervento di asportazione del tumore, e di fornire informazioni essenziali sul tipo istologico e sull’aggressività biologica del tumore. La biopsia renale non è un esame di routine, ma viene effettuato solo in alcuni casi selezionati.
TRATTAMENTI
L’approccio al trattamento del tumore del rene è di tipo multidisciplinare e può prevedere opzioni terapeutiche differenti.
Chirurgia
La chirurgia è il trattamento principale per il cancro del rene, con particolare riferimento alla chirurgia mini-invasiva laparoscopica.
Le opzioni chirurgiche per il cancro del rene comprendono:
• Nefrectomia parziale: il paziente affetto da tumore del rene scoperto in una fase precoce può beneficiare della chirurgia conservativa renale che consente di conservare parte della funzione renale asportando esclusivamente la massa tumorale.
• Nefrectomia radicale: i casi di tumore renale avanzato possono richiedere l’asportazione chirurgica completa del rene malato e della ghiandola surrenale adiacente e i linfonodi loco-regionali.
• Tecniche chirurgiche mini-invasive: i chirurgia per via laparoscopica (compresa l’ablazione laparoscopica) e robotica.
Terapia medica
Negli ultimi anni sono stati sviluppati una serie di farmaci biologici in grado di inibire recettori molecolari responsabili della proliferazione neoplastica, migliorando significativamente la prognosi di questa malattia. Tali farmaci hanno la capacità di colpire in modo selettivo le cellule tumorali preservando quelle sane, riducendo così la tossicità per il paziente. Inoltre, molti di essi hanno il vantaggio di essere somministrati per via orale.
Trattamento del carcinoma renale metastatico
Nei casi in cui il cancro sia diffuso ad altri organi, l’équipe medica elabora un piano terapeutico specifico. Le opzioni terapeutiche prevedono il trattamento chirurgico, la radioterapia, la terapia medica con farmaci biologici mirati a bloccare la crescita tumorale.
I tumori dello stomaco originano, nella maggior parte dei casi, dalla parte più interna della parete gastrica, la mucosa, e sono, in questo caso, chiamati adenocarcinomi. Meno di frequente possono nascere dagli strati più profondi della parete (e vengono chiamati GIST o sarcomi), dal tessuto linfatico (i cosiddetti linfomi) o, più raramente, da cellule che producono ormoni (carcinoidi).
Crescendo, l’adenocarcinoma, può coinvolgere i linfonodi vicini allo stomaco o invadere altri organi vicini come il pancreas, il fegato, la milza e il colon o si può estendere fino al peritoneo, diventando spesso inoperabile. Inoltre, attraverso il sangue la malattia può diffondersi in organi distanti, come polmone e fegato.
I principali fattori di rischio per lo sviluppo del tumore gastrico sono molti e vanno dallo scarso consumo di frutta e vegetali all’adozione di una dieta troppo ricca di cibi salati e affumicati; dal fumo all’infiammazione cronica dello stomaco; da una pregressa resezione gastrica per ulcera a una storia familiare di cancro dello stomaco.
I sintomi di un tumore allo stomaco sono legati alla sede in cui si è sviluppato, con maggiore evidenza quando interessa parti dove lo stomaco è più ristretto, come al suo ingresso e alla sua fine. In fase più avanzata si possono registrare nausea, vomito, dolore gastrico, dimagramento e stanchezza diffusa.
DIAGNOSI
Esami utili per la diagnosi di tumore dello stomaco sono:
Esofago-gastro-duodenoscopia (EGDS): è l’indagine diagnostica più importante. Permette l’esplorazione visiva della prima parte del tubo digerente attraverso l’utilizzo di un sottile tubo (endoscopio), introdotto attraverso la bocca, che illumina e ingrandisce le porzioni di viscere esplorate, attraverso il quale può essere anche effettuato il prelievo di tessuti (biopsia) che consenta la diagnosi istologica. È l’indagine diagnostica più importante.
Esame istologico: definisce il sottotipo di tumore nel tessuto prelevato e consente di porre le appropriate indicazioni terapeutiche.
RX del tubo digerente: metodica di utilizzo secondario, poco utile nell’identificare piccole lesioni, che non consente la diagnosi istologica.
Ecoendoscopia: consente di valutare la profondità dell’invasione tumorale nella parete gastrica e di valutare lo stato dei linfonodi adiacenti allo stomaco.
Esame radiologico computerizzato (TAC): fornisce immagini assiali del corpo umano con possibilità di ricostruzioni secondo tutti i piani dello spazio e anche tridimensionali.
TRATTAMENTI
L’asportazione chirurgica di parte o di tutto lo stomaco rimane l’opzione terapeutica principale. L’entità dell’asportazione chirurgica è in funzione dell’estensione della malattia. Il tumore allo stomaco può eventualmente essere ridotto attraverso l’attuazione di chemioterapia preoperatoria. Dopo l’intervento può essere, in alcuni casi, indicato un trattamento complementare farmacologico o, più raramente, radioterapico. In caso di metastasi avanzata il trattamento è di tipo chemioterapico.
Il tratto gastro-intestinale rappresenta una sede in cui frequentemente si localizzano i tumori neuroendocrini gastro-entero-pancreatici, in particolare il piccolo intestino, seguito dallo stomaco, e dal colon retto. I tumori neuroendocrini sono tumori a lenta crescita e solitamente poco aggressivi, anche se in alcuni casi possono invece crescere rapidamente e comportarsi in modo più maligno.
I fattori di rischio sono rappresentati da:
• alcune condizioni che impediscono allo stomaco di secernere la giusta quantità di acido
• il fumo di sigaretta
Solitamente i tumori carcinoidi gastrointestinali in una fase iniziale non causano sintomi. Alcuni pazienti possono però manifestare sintomi legati all’eccessiva produzione di un ormone chiamato serotonina, che può causare la cosiddetta “sindrome da carcinoide”:
vampate di calore al volto (flushing)
diarrea
dolore addominale (causato da ostruzione dell’intestino)
difficoltà a respirare e sibili (crisi asmatica)
debolezza e affaticamento
perdita di peso
tachicardia
danni alle valvole del cuore
I pazienti affetti da sindrome da carcinoide, quando vengono sottoposti a procedure chirurgiche o anestesiologiche o a trattamento chemioterapico, possono sviluppare la cosiddetta “crisi da carcinoide”, una situazione potenzialmente fatale causata dall’improvvisa liberazione di grandi quantità di serotonina nel circolo sanguigno.
DIAGNOSI
Un tumore carcinoide gastrointestinale spesso viene scoperto per caso, durante l’esecuzione di accertamenti diagnostici per altri motivi. Altre volte viene sospettato in base ai sintomi della sindrome da carcinoide: esami del sangue e delle urine possono in questi casi rivelare aumentati livelli di ormoni o altre sostanze prodotte dal tumore, in particolare di cromogranina A (una proteina prodotta dai tumori endocrini in genere) e di acido 5idrossindolacetico (5IHAA, un derivato della serotonina che si ritrova nelle urine).
Per confermare il sospetto diagnostico, individuare l’esatta localizzazione del tumore e le sue dimensioni, verificare se si è già diffuso ad altri organi e se è chirurgicamente asportabile, vengono generalmente eseguiti i seguenti esami strumentali:
• Tomografia Computerizzata (TC) dell’addome con tecnica trifasica: vengono acquisite immagini durante 3 differenti fasi di passaggio di mezzo di contrasto attraverso il fegato, per avere informazioni più accurate sulla eventuale diffusione del tumore ai linfonodi o al fegato
• Risonanza magnetica (RM)
• PET-TC (Tomografia ad Emissione di Positroni con fusione TC): è attualmente una delle indagini più importanti per la diagnosi e la stadiazione dei tumori neuroendocrini, grazie allo sviluppo di radiofarmaci specifici per questo tipo di neoplasie.
• La PET-TC con FGD utilizza un radiofarmaco che si accumula nelle lesioni neoplastiche caratterizzate da elevato metabolismo degli -zuccheri e quindi fornisce informazioni circa l’aggressività delle neoplasie.
• La PET-TC con Dopamina utilizza un precursore di alcune sostanze secrete dalle neoplasie neuroendocrine e pertanto permette l’identificazione di questi tumori per via del loro peculiare metabolismo.
• La PET-TC con Gallio-DOTA-peptide utilizza un radiofarmaco in grado di legarsi ai recettori per la somatostatina molto spesso presenti in abbondanza sulla superficie dei tumori neuroendocrini. Lo studio recettoriale di queste neoplasie non soltanto ne permette l’identificazione ma anche la selezione per alcuni tipi di terapie che utilizzano radiofarmaci analoghi della somatostatina.
• Scintigrafia recettoriale: è in grado di individuare i tumori neuroendocrini grazie alla presenza dei recettori per la somatostatina. Attualmente è un’indagine obsoleta nei centri ove sia disponibile la PET con Gallio-DOTA.
• Metodiche di endoscopia: gastroscopia, econendoscopia e colonscopia possono essere utili per visualizzare carcinoidi localizzati a livello di stomaco, duodeno, retto o colon.
Si può arrivare ad una diagnosi definitiva asportando direttamente il tumore o, più frequentemente, effettuando delle biopsie (prelievi di tessuto da esaminare poi al microscopio) endoscopiche o mediante la tecnica dell’agobiopsia guidata da TC o da ecografia.
TRATTAMENTO
Esistono diverse possibilità terapeutiche per i pazienti affetti da tumore neuroendocrino gastrointestinale, che comprendono chirurgia, terapie loco-regionali, bioterapie, chemioterapia, trattamenti con radio farmaci (radiorecettoriali).
Chirurgia
L’asportazione chirurgica del tumore rappresenta sempre il trattamento di prima scelta. I tumori localizzati (non estesi ad altri organi) possono essere asportati unitamente ad una porzione di tessuto sano circostante. In base alla localizzazione del tumore ed alla sua estensione, può essere necessario asportare porzioni più o meno estese dell’organo coinvolto e dei linfonodi circostanti. Questi interventi possono essere eseguiti talora per via laparoscopica: l’approccio mini-invasivo è in grado di ridurre il dolore e la durata della degenza postoperatoria.
In alcuni casi non è possibile ottenere l’asportazione completa del tumore: può essere comunque indicata una rimozione parziale (debulking), ad esempio allo scopo di migliorare la sintomatologia.
Endoscopia
In caso di tumore neuroendocrino ben differenziato di piccole dimensioni che sporge all’interno della cavità dello stomaco o dell’intestino, a volte l’asportazione può essere effettuata per via endoscopica.
Terapie loco-regionali a livello epatico.
Quando i tumori neuroendocrini gastrointestinali sono diffusi (metastatici) anche al fegato, è possibile eseguire (in alternativa o in associazione all’asportazione chirurgica) trattamenti locali quali embolizzazione o radiofrequenza. L’embolizzazione consiste nell’iniettare (utilizzando sottili cateteri) delle particelle all’interno dei vasi sanguigni del fegato, per bloccare il flusso sanguigno alla porzione di fegato dove è localizzato il tumore, togliendo così ad esso ossigeno e nutrienti. La radiofrequenza consiste nell’introdurre all’interno del fegato, sotto guida ecografica, sonde che generano calore e distruggono le metastasi.
Bioterapie
I pazienti in cui non si può rimuovere chirurgicamente il tumore possono essere trattati con iniezioni mensili di un ormone sintetico analogo della somatostatina (octreotide o lanreotide). Questa terapia è in grado di migliorare i sintomi e di rallentare la crescita del tumore. Un’alternativa è rappresentata dall’utilizzo di interferone, una sostanza in grado di aumentare la risposta immunitaria. Più recentemente hanno inoltre dimostrato la loro utilità due nuovi farmaci, il sunitinib e l’everolimus, in grado di interferire selettivamente sui meccanismi che consentono al tumore di crescere e dare metastasi.
Chemioterapia
E’ solitamente riservata ai casi in cui tutte le alternative terapeutiche sopra elencate sono state attuate/valutate e hanno dimostrato la loro inefficacia.
Terapia radiometabolica
L’elevata densità di recettori per la somatostatina sulla superficie dei tumori neuroendocrini costituisce il presupposto per la terapia radiorecettoriale. Si utilizza un farmaco analogo della somatostatina (dotato quindi di affinità per i recettori presenti in abbondanza sulle cellule tumorali) marcato da una porzione radioattiva (Ittrio o Lutezio). Il radiofarmaco che viene iniettato per via endovenosa è dunque in grado di riconoscere il proprio “bersaglio” grazie al legame dell’analogo della somatostatina ai recettori presenti sulle neoplasie. La porzione radioattiva agisce dunque in modo mirato, nei confronti cioè di quelle cellule tumorali su cui il radiofarmaco si è legato.
I tumori cistici del pancreas sono tumori rari, in genere benigni ma che possono andare incontro a una degenerazione maligna, dal contenuto liquido che possono raggiungere anche dimensioni importanti; colpiscono più comunemente il sesso femminile. In genere benigni, con il passare del tempo possono subire una degenerazione maligna. I tumori cistici del pancreas sono formazioni di cisti plurime a contatto tra loro e possono essere multipli. I tumori cistici del pancreas si distinguono in: cistoadenomi sierosi, cistoadenomi mucinosi, neoplasie intraduttali papillari-mucinose (benigni) e cistoadenocarcinomi (maligni).
I tumori cistici del pancreas sono in genere asintomatici e vengono rilevati casualmente nel corso di ecografie o TAC cui il paziente si è sottoposto per altre motivazioni. Le formazioni di grandi dimensioni in particolare si caratterizzano per i seguenti sintomi:
• Dolore di modesta entità avvertito alla parte alta dell’addome;
• Nausea o vomito, se la cisti esercita una compressione sullo stomaco o sul duodeno;
• Ittero (colore giallo della cute e degli occhi), se la cisti va a comprimere il coledoco;
• Episodi di pancreatite acuta che si manifestano con un dolore violento improvviso. In questi casi la pancreatite è dovuta alla presenza di muco molto denso, prodotto da alcuni tumori cistici, (neoplasia intraduttale papillare-mucinosa) che ostruisce i dotti pancreatici.
DIAGNOSI
Un tumore cistico non va confuso con una pseudocisti: si tratta di due patologie differenti e che necessitano di trattamenti molto diversi. Se il paziente è affetto da una pancreatite cronica o ha avuto una pancreatite acuta grave, una formazione liquida pancreatica o peripancreatica è in genere da ricondurre a una pseudocisti. Qualora in un paziente – che non abbia avuto una pregressa malattia pancreatica oppure sia stato affetto da una pancreatite acuta lieve – sia riscontrata una raccolta liquida, questa può essere ricondotta a un tumore cistico del pancreas.
L’ecografia, la TAC e/o la Risonanza Magnetica possono fornire informazioni utili qualora si sospetti un tumore cistico.
L’ecoendoscopia in particolare consente di effettuare una valutazione delle pareti della cisti, di rilevare la presenza di vegetazioni interne e di prelevare cellule o liquido della cisti, da sottoporre a esami più dettagliati.
TERAPIA
In alcuni casi può rendersi necessaria l’asportazione del tumore sia per evitarne una degenerazione maligna sia per proteggere il paziente dai disturbi che il tumore potrebbe generare.
In caso di tumori sierosi, piccoli tumori mucinosi dei dotti secondari o qualora i pazienti siano molto anziani) potrebbe essere sufficiente un monitoraggio della cisti con periodici esami strumentali.
Gli interventi che possono essere indicati sono la duodenocefalopancreasectomia, la pancreasectomia distale, la pancreasectomia totale (quando il tumore cresce lungo il dotto pancreatico oppure è multifocale) e la pancreasectomia intermedia.
Il tumore del fegato (epatocarcinoma), proliferazione non controllata delle cellulle epatiche (del fegato), colpisce la ghiandola più grande del corpo umano che svolge funzioni importanti quali la rimozione di sostanze tossiche dal corpo, la sintesi delle proteine contenute nel sangue e la produzione della bile e di enzimi importanti per la digestione.
Il tumore del fegato può essere primitivo, quando “nasce” all’interno del fegato (il più frequente è l’epatocarcinoma) o, più spesso, secondario, quando deriva da un tumore che si è sviluppato in un altro organo e si è esteso al fegato (metastasi epatica).
Più raramente un tumore può svilupparsi nei dotti epatici, condotti che portano la bile dal fegato alla colecisti (colangiocarcinoma).
DIAGNOSI
I tumori primitivi del fegato colpiscono in Italia 11 persone ogni 100.000 abitanti. Alcuni pazienti, come chi ha una cirrosi di lunga data causata dall’epatite B o C o da un consumo eccessivo di alcool, sono maggior rischio di sviluppare l’epatocarcinoma. È quindi importante che svolgano controlli periodici con un epatologo (che valuterà gli esami da eseguire).
I sintomi del tumore al fegato si presentano generalmente in fase avanzata e sono estremamaente aspecifici (ovvero possono essere riscontrati anche in altre condizioni, neoplastiche o no): stanchezza, perdita di peso, colorazione gialla della cute, dolore al fianco destro.
In seguito alla visita medica, nel caso in cui il medico riscontri la presenza di sintomi che possono far sospettare la presenza di un tumore al fegato, possono essere prescritti diversi esami:
• Ecografia addominale
• Tomografia computerizzata
• Risonanza Magnetica
• Colangiopancreatografia retrograda endoscopica (ERCP) ed ecoendoscopia
• Colangiografia percutanea trans epatica (PTC)
• Biopsia epatica
• Elastografia epatica (FibroScan)
Gli obiettivi sono due: determinare lo stadio del tumore (ovvero la sua estensione nel corpo) e le sue caratteristiche (ovvero capire se è primitivo o una metastasi, con le opportune indagini radiologiche e, eventualmente, con un piccolo prelievo). Solo una volta determinato lo stadio e le caratteristiche del tumore sarà possibile pianificare la terapia. È importante sapere che non tutte le indagini sono adatte in ogni caso: gli accertamenti da eseguire vanno discussi per ogni singolo paziente.
TRATTAMENTI
Il trattamento dell’epatocarcinoma è complesso e richiede l’intervento di più specialisti. La tipologia di trattamento utilizzato dipende dalla quantità e dal volume delle masse tumorali presenti, dalla loro localizzazione, dalla presenza o meno di metastasi (quando il tumore si diffonde anche agli organi vicini).
Essenziale è anche valutare le condizioni generali e lo stato di salute del paziente, soprattutto quando si tratta di adottare un intervento di tipo chirurgico.
La classificazione dell’epatocarcinoma è la seguente:
• tumore localizzato e resecabile: si può intervenire chirurgicamente asportando la parte di fegato interessata dal tumore. In casi estremi (selezionati con estrema cura) si può prevedere l’asportazione totale dell’organo, procedendo con un trapianto;
• tumore localizzato non resecabile: la non resecabilità può dipendere dall’estensione del tumore; talora le condizioni generali del paziente (e del suo fegato) che non consentono di tollerare un intervento. In questo caso si utilizzano differenti approcci: termoablazione (cellule distrutte utlizzando il calore), iniezione percutanea di etanolo (alcol che uccide le cellule tumorali), criochirurgia (cellule distrutte utilizzando il freddo), infusione di chemioterapici nell’arteria epatica, radioembolizzazione (infusione nell’arteria epatica di sostanze radioattive che colpiscono le cellule tumorali) e trapianto. La tecnica da utilizzare andrà valutata in base alla sede e alle dimensioni del tumore
• tumore in stato avanzato: in presenza di uno stadio avanzato, la terapia dipende dalle condizioni generali del paziente. La chemioterapia non è utilizzata frequentemente nell’epatocarcinoma. Qualora il paziente (e il fegato) siano in buone condizioni generali è possibile assumere della terapia “mirata” (sotto forma di pastiglie).
• nei pazienti con una cirrosi non compensata o in condizioni generali compomesse le terapie si limitano a tenere sotto controllo i sintomi più fastidiosi per il paziente;
• ricadute: si possono presentare entro due anni dalla scoperta del tumore primario e vengono trattate a seconda delle loro caratteristiche.
Nel caso del colangiocarcinoma o delle metastasi epatiche da altri tumori, la diagnosi e la terapia possono essere differenti e andranno stabilite in ogni singolo caso con lo specialista.
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