La capsulite adesiva della spalla, volgarmente detta spalla congelata, è una patologia infiammatoria che causa la perdita di mobilità dell’articolazione omero scapolare. È una patologia in cui tipicamente i sintomi si presentano in maniera lieve e peggiorano gradualmente nel tempo.
La capsulite adesiva è una condizione dolorosa e invalidante, che spesso causa notevole frustrazione nel paziente a causa dei lunghi tempi di recupero. La patologia comporta una limitazione forte dei movimenti della spalla. Il dolore costante, che tende a peggiorare nelle ore notturne, può rendere impossibili anche i gesti più semplici. La condizione porta spesso il paziente ad avere difficoltà anche con il sonno, a causa dei movimenti molto limitati che è costretto a compiere.
L’articolazione fra spalla e omero è composta di ossa, tendini e legamenti, che sono compresi in una capsula di tessuto connettivo. Quando questa capsula si restringe e si infiamma fino a limitare i movimenti dell’articolazione, si verifica la capsulite adesiva. La capsulite adesiva è più frequente nel sesso femminile, in un’età compresa fra i 35 e i 50 anni e si associa spesso a malattie metaboliche (diabete o iper / ipotoroidismo); si pensa anche che possa essere collegata a problemi autoimmuni, ma i ricercatori non hanno ancora scoperto perché questa patologia colpisca alcune persone piuttosto che altre.
La capsulite adesiva si manifesta solitamente in maniera progressiva:
• Nella prima fase, i movimenti dell’articolazione sono molto dolorosi, ma possibili, mentre il raggio dei movimenti si riduce gradualmente. Questa fase dura in media fra i due e i nove mesi.
• La seconda fase è caratterizzata da una leggera riduzione del dolore, accompagnata da una notevole diminuzione del raggio di movimenti possibili, per un periodo fra i quattro e i nove mesi.
• La fase successiva, detta di “scongelamento”, vede un nuovo ampliamento delle possibilità di movimento dell’articolazione, fino al recupero, che può essere totale o solo parziale. Questa fase può durare fra i sei mesi e i due anni.
Poiché non sono noti fattori di rischio prevenibili, non esiste una vera forma di prevenzione.
DIAGNOSI
L’esame fisico è solitamente sufficiente per effettuare la diagnosi di capsulite adesiva. Il medico verifica la mobilità dell’articolazione e la possibilità di compiere determinati movimenti. La risonanza magnetica e la radiografia possono essere utili a escludere che i sintomi derivino da condizioni differenti.
TRATTAMENTI
I trattamenti per questa patologia si concentrano sulla riduzione del dolore e sul recupero della funzionalità dell’articolazione. Lo specialista spesso prescrive farmaci antinfiammatori e antidolorifici.
Purtroppo si tratta di una patologia i cui tempi di recupero sono lunghi e per la quale è difficile valutare pro e contro dei vari trattamenti.
Fra le opzioni terapeutiche per la capsulite adesiva ci sono:
• Terapia farmacologica associata a fisioterapia.
• Iniezioni di corticosteroidi, al fine di alleviare il dolore e migliorare la mobilità articolare.
• Intervento chirurgico in artroscopia, nel caso l’ortopedico giudichi che la rimozione di parte del tessuto capsulare possa essere d’aiuto.
La lussazione della spalla si verifica quando la testa dell’omero non si trova più a contatto con la cavità glenoidea, il punto in cui si articola con la scapola.
La lussazione della spalla può essere anteriore (più comune) oppure posteriore. Come per tutte le lussazioni, si tratta di un infortunio piuttosto doloroso e che non permette i normali movimenti dell’articolazione.
La lussazione della spalla avviene in conseguenza di un evento traumatico o, molto più raramente, di una patologia degenerativa. In ogni caso, si tratta di una condizione che tende a recidivare sempre più frequentemente, in quanto le strutture deputate alla stabilità della spalla (capsula e legamenti) tendono a rompersi e/o allungarsi progressivamente in seguito agli episodi di lussazione rendendo l’articolazione sempre meno stabile.
La lussazione della spalla è un infortunio piuttosto doloroso ed è facilmente riconoscibile dal fatto che la spalla è molto dolorante ed è impossibile per il paziente l’esecuzione di alcun movimento. Inoltre, la testa dell’omero si può riconoscere alla palpazione come “scivolata” sotto l’ascella (lussazione anteriore) o dietro di essa (lussazione posteriore).
La lussazione della spalla può comportare alcune complicazioni vascolari e a livello di nervi, è bene quindi, in caso di lussazione, farsi visitare tempestivamente da un medico, muovere l’articolazione il meno possibile e applicare ghiaccio per ridurre la componente infiammatoria presente.
Alcuni tipi di attività sportiva sollecitano particolarmente l’articolazione fra scapola e omero o la espongono a una maggiore probabilità di eventi traumatici. Anche le cadute e gli incidenti stradali sono fra le cause più comuni di lussazione della spalla. Infine, alcune persone nascono naturalmente con tendini e strutture capsulo legamentose meno rigide, che li predispongono alle lussazioni.
L’unico modo per diminuire le possibilità di incorrere in una lussazione della spalla è fare attenzione alle cadute e cercare di indossare adeguate protezioni se si praticano sport di contatto o attività lavorative che comportano questo rischio.
DIAGNOSI
Una lussazione della spalla è normalmente facile da riscontrare attraverso l’esame fisico del paziente. Talvolta, il medico prescrive una radiografia o una risonanza magnetica di controllo per escludere la presenza contemporanea di fratture o lacerazioni tendinee.
TRATTAMENTI
La riduzione della lussazione è una procedura standard nella quale il medico cerca di riportare la testa dell’omero nella sua posizione normale, a contatto con la cavità glenoidea. Questa procedura può essere effettuata in anestesia ed è meglio ridurre la lussazione il prima possibile per ridurre i danni che il dislocamento comporta a strutture vascolari e nervose.
A seconda dell’intensità del dolore (che di norma migliora dopo la riduzione) il medico prescrive in seguito farmaci antidolorifici o per rilassare i muscoli e l’immobilizzazione dell’articolazione, per permettere un’eventuale guarigione delle strutture lesionate.
Generalmente nel caso di un primo episodio la terapia è conservativa.
Dopo un periodo di immobilizzazione con un tutore si procede a un periodo di riabilitazione per ottenere un recupero articolare completo e un successivo rinforzo delle strutture muscolari che coadiuvano la stabilità della spalla.
Nel caso di persistenza dell’instabilità con episodi sempre più frequenti va presa in considerazione la possibilità di sottoporsi a un intervento chirurgico per “stabilizzare” l’articolazione.
L’intervento può essere eseguito in artroscopia se il danno è limitato alle “parti molli”: capsula e legamenti o a “cielo aperto” se al danno capsulo legamentoso fosse associato un deficit osseo o omerale o scapolare.
In entrambi i casi al gesto chirurgico va seguito un lungo periodo riabilitativo composto di:
• Prima fase: immobilizzazione del braccio per circa 4 settimane, per permettere al tessuto muscolare di ripararsi.
• Seconda fase: fisioterapia assistita, per recuperare il movimento dell’articolazione (circa 4-8 settimane).
• Terza fase: rinforzo della muscolatura attraverso l’esercizio fisico assistito e no (circa 8 settimane).
La cuffia dei rotatori è formata dall’insieme dei tendini di quattro muscoli (Sovraspinato, sottospinato, piccolo rotondo, sottoscapolare) che dalla scapola si inseriscono sull’omero consentendo l’elevazione e la rotazione del braccio. Questa struttura aiuta inoltre a mantenere stabile la testa dell’omero nella cavità glenoidea della scapola.
La causa più frequente di lesioni della cuffia dei rotatori è il graduale deterioramento della qualità del tendine conseguente a microtraumi ripetuti, associati al progressivo logoramento del tessuto tendineo.
Meno frequentemente, si può verificare in seguito a eventi traumatici violenti, ad esempio cadute sull’arto superiore o lussazioni.
Il tendine più di frequente soggetto a lesioni è il sovraspinato.
Il sintomo principale è il dolore, spesso notturno, nella zona della spalla e del braccio, associato alla progressiva perdita di forza e di movimento. Le lesioni parziali dei tendini della cuffia provocano in genere dolore continuo all’articolazione della spalla, anche se il movimento del braccio è spesso conservato. Lesioni ampie, che comportano la completa rottura di uno o più tendini, oltre al dolore causano generalmente una graduale diminuzione della mobilità dell’articolazione, talvolta con l’impossibilità di elevare il braccio oltre i 90°.
DIAGNOSI
Un approfondito esame clinico in genere consente di individuare le conseguenze di una lesione della cuffia dei rotatori: movimento limitato, perdita di forza e dolore in alcune posizioni dell’arto. La visita medica si completa con esami specifici che aiutano a confermare e documentare il sospetto clinico al fine di pianificare la migliore strategia terapeutica.
Radiografia: viene eseguita interponendo la regione da esaminare tra la sorgente dei raggi X e una pellicola radiografica e permette di valutare la condizione delle strutture ossee della spalla. Ecografia: sfrutta il riflesso di un fascio di ultrasuoni, emesso da un trasduttore, per visualizzare i muscoli e i tendini della spalla.
Risonanza magnetica (RMN): si avvale dell’utilizzo di campi magnetici e di onde a radiofrequenza e consente l’ottimale controllo della sede e dell’estensione del danno tendineo oltre che dello stato dei muscoli.
TRATTAMENTO
Nei casi cronici, il trattamento si basa inizialmente su terapie mediche per ridurre il dolore, istruzioni per un utilizzo protetto dell’arto nei movimenti ed esercizi rieducativi per migliorare il movimento della spalla. In seguito, può essere consigliato un intervento chirurgico. Le lesioni acute, conseguenti a un trauma, vengono in genere operate appena risolta la fase acuta.
La frattura del braccio o del gomito sono un evento abbastanza frequente che implica la rottura di una o più ossa del braccio, ulna, radio e omero. Una delle cause più frequenti di frattura è una caduta violenta sul braccio teso. Il sintomo è un dolore acuto e la difficoltà a piegare il braccio. L’intervento chirurgico, quando necessario, mira a ricomporre correttamente le ossa, riallineandole, con lo scopo di evitare la rigidità articolare e future deformazioni.
Che cos’è la frattura del braccio?
La frattura del braccio può coinvolgere una qualsiasi delle tre ossa che vanno dalla spalla al polso – omero, radio e ulna – che si congiungono nell’articolazione del gomito.
Il braccio è un’articolazione complessa e molto importante per tutte le azioni quotidiane e le fratture possono alterarne la normale funzionalità. È necessario intervenire rapidamente per evitare menomazioni che possono degenerare nel tempo.
Quali sono le cause della frattura del braccio?
Le cause più frequenti sono cadute violente sul braccio teso. Ciò può avvenire dopo una caduta in casa o per strada, dopo un incidente alla guida di un veicolo o durante l’attività sportiva. Un’altra causa è l’osteoporosi.
Quali sono i sintomi della frattura del braccio?
I sintomi della frattura del braccio differiscono a seconda del punto di lesione. Generalmente la frattura provoca:
Dolore acuto
Difficoltà a piegare il braccio
Gonfiore
Presenza di lividi e tumefazioni
Le fratture non trattate adeguatamente possono dare luogo a complicazioni che comprendono artrosi post-traumatica, infezioni, infiammazione del nervo ulnare, rigidità articolare, vale a dire la difficoltà a muovere correttamente il braccio.
Come prevenire la frattura del braccio?
Le fratture del braccio si prevengono ponendo particolare attenzione alla protezione delle articolazioni se si svolgono attività sportive. È buona norma non sottoporre l’articolazione a movimenti ripetuti e usuranti.
Per evitare le fratture dovute a osteoporosi si dovrebbe integrare l’alimentazione ricca di calcio e vitamina D e seguire le terapie mediche prescritte.
Per prevenire le cadute, le persone anziane dovrebbero indossare scarpe comode, con suole antiscivolo, rimuovere gli ostacoli presenti in casa, come tappeti, illuminare bene gli ambienti, fare attenzione se si cammina all’esterno su superfici scivolose.
L’omero è l’osso del braccio che collega l’articolazione della spalla all’articolazione del gomito. In caso di cadute o traumi, l’omero può fratturarsi e, in base della parte dell’osso interessata, si riconoscono tre diverse tipologie di frattura:
frattura dell’estremità prossimale, quando interessa testa e collo omerale, in prossimità della spalla
frattura dell’estremità distale, quando interessa la regione della troclea e dei condili omerali, in prossimità del gomito
frattura del corpo dell’omero, quando interessa la parte diafisaria centrale (non articolare) dell’osso.
Quali sono le cause della frattura dell’omero?
La frattura dell’omero è principalmente causata da cadute, ma può essere anche provocata da infortuni sportivi (per esempio nello sci e nel calcio) o da incidenti stradali. La frattura dell’omero può verificarsi anche in assenza di trauma, a causa di patologie come tumori o infezioni che indeboliscono l’osso favorendone la rottura (in questo caso si parla di fratture patologiche), o per disturbi come l’osteoporosi.
Quali sono i sintomi della frattura dell’omero?
I sintomi della frattura dell’omero comprendono:
dolore
deformità dell’area interessata
gonfiore
ecchimosi
limitazione funzionale
eventuale compromissione nervosa (soprattutto per le fratture diafisarie distali con interessamento del nervo radiale)
ferita con eventuale fuoriuscita della pelle (frattura esposta).
In base a tipologia e severità della frattura si possono verificare più combinazioni di questi sintomi. In ogni caso, qualora si dovessero riscontrare manifestazioni associate alla frattura dell’omero, bisogna rivolgersi tempestivamente al Pronto Soccorso.
Frattura dell’omero: come si fa la diagnosi?
La frattura dell’omero viene diagnosticata dallo specialista ortopedico in base ai sintomi riportati dal paziente, all’esame clinico e ai risultati di esami strumentali come radiografia ed eventualmente TAC in caso di fratture articolari o in caso di dubbio diagnostico alla Radiografia.
Come trattare la frattura dell’omero?
In attesa della valutazione specialistica è utile immobilizzare l’estremità dell’osso e applicare il ghiaccio sull’area interessata. I trattamenti per la frattura dell’omero si differenziano poi in base al tipo di frattura e alla condizione clinica del singolo paziente.
Per le fratture composte, ossia ben allineate, in particolare a livello di omero prossimale o diafisario, si ricorre a immobilizzazione dell’arto con tutore dedicato (tasca reggibraccio con fascione) o con fasciatura comprendente sia l’arto sia il torace (bendaggio Desault).
Alcune fratture diafisarie richiedono il bendaggio Desault e, a seguire, l’utilizzo di un tutore termoplastico (Brace) utile ad iniziare la mobilizzazione di spalla e gomito anche se la frattura non è ancora consolidata.
Per le fratture scomposte, soprattutto quando coinvolgono il piano articolare, si deve ricorrere all’intervento chirurgico, per riallineare e stabilizzare la frattura con mezzi di sintesi come chiodi, placche, viti o cerchiaggi. Sono elementi realizzati in materiali biocompatibili che spesso possono restare in situ evitando così l’intervento di rimozione.
Se la frattura è a carico della parte prossimale ed è difficilmente riducibile, si deve ricorrere all’intervento chirurgico di sostituzione protesica della spalla. Questa soluzione si applica soprattutto ai pazienti anziani e comporta tempi di immobilizzazione più brevi e un migliore risultato funzionale a distanza.
Nelle fratture esposte, in cui dunque l’osso esce dalla ferita e comunica con l’ambiente esterno, a seguito della pulizia dell’area interessata, si procede con una terapia antibiotica per minimizzare il rischio di infezione e con un trattamento tendenzialmente chirurgico. La chirurgia viene valutata dallo specialista in base allo stato dei tessuti molli e alla normalizzazione degli indici di flogosi.
“Gomito del tennista” è un’espressione che viene comunemente utilizzata per indicare l’epicondilite, un disturbo a carico del gomito dovuto alla degenerazione di un tendine alla sua inserzione ossea sull’epicondilo omerale (piccola sporgenza ossea terminale dell’omero che si trova nel gomito). Questa condizione, che provoca dolore anche molto intenso, è una conseguenza del sovraccarico tendineo dovuto a una continua sollecitazione dei muscoli epicondiloidei (quei muscoli, cioè, che permettono l’estensione del polso e delle dita della mano). È un disturbo molto comune che in Italia riguarda dall’1% al 3% della popolazione. La fascia di età più colpita è quella tra i 25 e i 60 anni.
Che cos’è il gomito del tennista?
L’epicondilite è una particolare tendinopatia a carico dei tendini estensori del polso e delle dita. L’infiammazione origina quando i tendini che si inseriscono sull’epicondilo laterale omerale all’altezza del gomito, subiscono una degenerazione che scompagina le fibre elastiche e le sostituisce con fibre cicatriziali.
Si tratta di una patologia degenerativa – se non trattata peggiora con il passare del tempo – e può essere indotta da una serie di microtraumi o overuse per esempio a causa di ripetute posizioni innaturali e sforzi del braccio.
L’epicondilite provoca la perdita di elasticità del tendine e, dunque, compromette i movimenti del polso e del gomito. Il dolore si irradia nel braccio a ogni movimento, anche durante le azioni più semplici. Per queste sue caratteristiche e la tendenza a cronicizzarsi, il gomito del tennista può diventare con il passare del tempo un disturbo invalidante che impedisce il normale svolgimento delle attività quotidiane con un notevole impatto sulla qualità di vita dei pazienti.
Quali sono le cause del gomito del tennista?
Il gomito del tennista di solito è determinato da un sovraccarico funzionale (da un uso, cioè, eccessivo e continuato del gomito). Si manifesta quindi più frequentemente in quei soggetti che, a causa di specifiche attività sportive o lavorative, ripetono frequentemente movimenti che interessano gomito, polso e mano e si trovano costretti a mantenere gomito e braccio in una posizione innaturale per un tempo prolungato. Per esempio chi svolge mansioni “da scrivania” e dunque lavora al computer per svariate ore al giorno, oppure i camerieri, o ancora i meccanici.
Quali sono i sintomi del gomito del tennista?
Il dolore a livello del gomito è il sintomo più indicativo dell’epicondilite. Inizialmente il dolore è circoscritto al gomito, si manifesta quando si compiono movimenti di estensione del polso o della mano contro una resistenza e tende ad aumentare se sollecitato attraverso movimenti che richiedono il coinvolgimento dei muscoli dell’avambraccio. Se l’epicondilite non viene trattata, il dolore può irradiarsi lungo l’avambraccio e persistere anche a riposo.
Come si previene il gomito del tennista?
Per prevenire lo sviluppo dell’epicondilite è necessario limitare al minimo quelli che sono i fattori di rischio legati allo sviluppo di questa condizione. Tra questi:
Sovraccarico funzionale dei muscoli e dei tendini del gomito.
Sforzi eccessivi connessi ai movimenti del braccio, e in particolare del gomito.
Danni diretti (come i movimenti scorretti o l’eccessiva estensione dell’avambraccio).
Diagnosi
La diagnosi avviene principalmente tramite palpazione dell’epicondilo e si avvale di test specifici, che, se positivi, indicano la presenza della patologia. Una volta stabilita la gravità del problema l’approccio sarà, se possibile, conservativo, dunque lo specialista cercherà di evitare quanto possibile la chirurgia, che non è detto abbia esito risolutivo, e di sostituirla con cure di altro tipo.
TRATTAMENTO
L’approccio terapeutico all’epicondilite è generalmente conservativo e prevede l’utilizzo di antinfiammatori, terapie fisiche (come laserterapie e onde d’urto focali per migliorare la microvascolarizzazione locale), sedute di fisioterapia e stretching.
È di cruciale importanza mantenere l’arto a riposo: per permettere che i trattamenti abbiano esito positivo, gomito e polso devono evitare tutti quei movimenti che provocano lo sforzo del tendine.
L’obiettivo delle terapie è sia aumentare l’elasticità del tendine, sia migliorare la vascolarizzazione. I due aspetti, infatti, sono strettamente correlati, e concorrono a condizionare la capacità di movimento del tendine e, dunque, il dolore provato dal paziente.
Che cos’è la frattura del polso?
La frattura del polso è un evento frequente che può avvenire a seguito di cadute, sia durante l’attività sportiva, che durante le normali attività quotidiane. Le fratture del polso più comuni sono quelle dell’ulna, del radio e dello scafoide.
Quali sono le cause della frattura del polso?
La frattura del polso incorre abitualmente in caso di cadute. Quando si cade, infatti, si tende a proteggere il volto o in generale il proprio corpo con le mani, che, dunque, hanno un impatto più violento con il terreno.
Quali sono i sintomi della frattura del polso?
In caso di frattura a un osso del polso il principale sintomo che si avvertirà sarà il dolore. Inoltre la zona interessata tenderà a gonfiarsi e la funzionalità del polso sarà limitata.
Frattura del polso: come si fa la diagnosi
La diagnosi viene abitualmente effettuata in sede di Pronto Soccorso o, se il dolore non è completamente invalidante, presso lo specialista chirurgo della mano. Verrà in ogni caso effettuato un esame clinico e una radiografia della zona interessata. In determinati casi, per una più accurata visualizzazione della frattura, può rendersi necessaria l’esecuzione di una TAC del polso.
Come trattare la frattura del polso
Il primo passo consiste nella riduzione del dolore e contestualmente si cerca di favorire la guarigione in tempi più brevi possibile. In base alle caratteristiche della frattura e alle ossa coinvolte, lo specialista valuta il trattamento più adatto per il paziente. Quando la frattura è composta si immobilizza il polso con un tutore, che va indossato per circa 30 giorni. Quando, invece, la frattura è scomposta, intra articolare o pluriframmentaria si deve intervenire chirurgicamente. Nella maggior parte dei casi per stabilizzare la frattura si inserisce una placca, che consente una mobilizzazione più veloce e un minor tempo di recupero rispetto al trattamento col gesso. Il trattamento chirurgico dura circa un’ora, viene eseguito in day hospital e prevede l’anestesia locale del braccio. Quando la frattura è guarita, inizia un protocollo di riabilitazione che serve a completare il recupero funzionale e che viene stabilito in base alle condizioni cliniche del paziente, alle sue esigenze funzionali e alla sua età.
La sindrome del tunnel carpale coinvolge il cosiddetto “tunnel carpale”, un canale del polso in cui passano il nervo mediano e i nove tendini flessori delle dita che vanno dall’avambraccio alla mano. L’aumento di pressione sul nervo o il suo schiacciamento sono all’origine di questa sindrome.
Quali sono le cause della sindrome del tunnel carpale?
Non è facile risalire alle cause della sindrome del tunnel carpale. L’aumentata pressione sul nervo può essere dovuta alla tenosinovite, ovvero l’infiammazione della guaina che riveste i tendini flessori. Interessa in particolar modo le donne e condizioni quali lussazioni articolari o fratture possono agevolarne l’insorgenza, così come malattie a carico della tiroide, diabete e artrite reumatoide. Può associarsi anche alla dialisi e in alcuni casi anche la ritenzione idrica nelle donne gravide può essere un fattore scatenante.
Quali sono i sintomi della sindrome del tunnel carpale?
I sintomi del tunnel carpale si distribuiscono nelle zone innervate dal nervo mediano. Formicolio alle prime dita della mano, talvolta accompagnato da dolore, soprattutto nel corso della notte, sono i sintomi più frequenti. La sensazione di formicolio è provocata, tra gli altri fattori, dalla distribuzione dei liquidi corporei: nel corso della giornata si passa più tempo in piedi o seduti e i liquidi sono portati dalla gravità verso il basso, mentre durante il riposo notturno, i liquidi si ridistribuiscono nel corpo sdraiato raggiungendo anche gli arti superiori. La sindrome del tunnel carpale si manifesta solitamente con intorpidimento e formicolio del pollice, dell’indice, del medio o dell’anulare, ma non del mignolo. I fastidi possono presentarsi a intermittenza, ma possono anche diventare costanti. Nei casi più avanzati può comparire anche un deficit motorio. La debolezza della mano e delle dita può addirittura arrivare a ridurre le capacità di afferrare saldamente gli oggetti.
DIAGNOSI
Gli esami che possono essere utili nel formulare una diagnosi di sindrome del tunnel carpale sono: test di laboratorio ed elettromiografia e elettroneurografia, utile a valutare la velocità con cui il nervo trasmette gli impulsi e a verificare lo stato di salute del nervo mediano.
TRATTAMENTO
Nella maggioranza dei casi è necessario ricorrere alla chirurgia. Grazie all’intervento è infatti possibile creare più spazio al nervo all’interno del tunnel tagliando il legamento che costituisce il “tetto” del tunnel dal lato del palmo. Si procede per via endoscopica, tramite una piccola incisione lunga 1cm circa a livello del polso, che consente al chirurgo di procedere al taglio del tetto del canale con uno strumento che presenta una lama e una videocamera all’ estremità, in modo da poter controllare su un monitor l’avanzamento dell’intervento. L’intervento è breve, della durata di circa 5 minuti, e la medicazione andrà mantenuta per due settimane. La mano può essere utilizzata da subito, per i movimenti semplici così come per quelli complessi e il paziente è completamente autonomo. Nelle settimane o nei mesi successivi all’intervento il paziente potrebbe avvertire indolenzimento nella zona della cicatrice. L’intorpidimento e il formicolio possono scomparire rapidamente oppure in maniera più graduale. Possono essere necessari vari mesi affinché la forza della mano e del polso torni alla normalità. Nei casi in cui la compressione del nervo è molto grave e avanzata è possibile però che i sintomi non scompaiano completamente dopo l’intervento chirurgico. Pertanto è bene rivolgersi subito allo specialista appena si avvertono questi sintomi.
La sindrome del tunnel cubitale è una compressione del nervo ulnare che avviene in corrispondenza dell’articolazione del gomito. È una sindrome piuttosto comune e dipende dal fatto che il nervo ulnare si trova a passare in un canale molto stretto (chiamato doccia epitrocleo-olecranica), chiuso da un legamento. Nei movimenti di flesso-estensione del gomito o quando il gomito rimane piegato per lungo tempo (per esempio durante le ore notturne), il nervo ulnare viene schiacciato contro il legamento, ricevendo un minor apporto di sangue.
Quali sono le cause della sindrome del tunnel cubitale?
A parte situazioni di tipo congenito, dove il canale presenta particolari caratteristiche di ristrettezza, altre cause possono essere situazioni degenerative come l’artrosi o gli esiti di traumi precedenti, come fratture o lussazioni del gomito, che hanno variato l’anatomia dell’articolazione. Tra le cause della sindrome del tunnel cubitale figurano anche il mantenimento di posture scorrette, l’utilizzo continuativo di strumenti vibranti, movimenti ripetitivi o situazioni che mantengono il gomito flesso per lungo tempo, come avviene in particolari sport o per l’utilizzo prolungato di alcuni strumenti musicali come il violino.
Quali sono i sintomi della sindrome del tunnel cubitale?
La sindrome del tunnel cubitale ai primi stadi provoca formicolio e fastidio cronico alle ultime due dita delle mani (anulare e mignolo). In particolare i sintomi si manifestano se il braccio è in determinate posizioni, soprattutto quando il gomito rimane piegato a lungo, come capita quando si legge un libro a letto o si sta alla tastiera del computer per diverse ore.
Nelle fasi più avanzate della sindrome il paziente non avverte più sensibilità ai polpastrelli di anulare e mignolo e presenta una riduzione importante della forza delle mani particolarmente evidente nei movimenti di adduzione e abduzione delle dita
DIAGNOSI
La sindrome del tunnel cubitale si diagnostica tramite visita specialistica: la valutazione clinica, per questo tipo di patologia è fondamentale e prevede una prima fase in cui il medico specialista ascolta la descrizione dei disturbi del paziente e da un secondo momento, in cui si procede con l’esame obiettivo.
Se a seguito degli accorgimenti indicati dallo specialista il disturbo non si risolve, può essere necessario procedere con ulteriori esami di approfondimento. L’esame dirimente è l’elettromiografia, un test che consente di misurare la capacità di condurre lo stimolo elettrico da un punto all’altro. Questo parametro è funzione diretta dello stato di salute del nervo, infatti più il nervo è in salute, più velocemente verrà condotto lo stimolo e, viceversa, più il nervo risulterà danneggiato più la trasmissione sarà lenta.
TRATTAMENTI
Se la sindrome del tunnel cubitale si manifesta con una sintomatologia lieve, può essere sufficiente mettere in atto determinati accorgimenti. Per esempio chi fa un lavoro d’ufficio può allontanare la sedia dalla scrivania in modo da avere i gomiti più distesi mentre lavora al computer, e la stessa accortezza si può attuare quando si guida l’automobile o quando si legge un libro.
Negli stadi più avanzati, può essere necessario utilizzare per un determinato periodo un tutore nelle ore notturne, poiché nel sonno si tende a piegare i gomiti.
Se la situazione non migliora, però, si deve intervenire chirurgicamente con un intervento di decompressione. Si tratta di un intervento semplice, che viene effettuato in regime di day-hospital, in anestesia locale del braccio della durata di circa 15 minuti. Nel post-operatorio l’arto non ha bisogno di immobilizzazione e non è necessario seguire un percorso fisioterapico.
I dolori artritici sono i dolori tipici dell’artrite reumatoide, malattia autoimmune caratterizzata da uno stato infiammatorio cronico che provoca dolore, tumefazione e rigidità articolare soprattutto a livello di mani, polsi e piedi, con limitazione dei movimenti e della funzionalità delle articolazioni interessate. L’artrosi può causare dolore e deformità alle mani, ma in sedi diverse da quelle colpite dall’artrite, per cui è possibile distinguere le due forme già a partire dall’esame obiettivo.
Le manifestazioni cliniche iniziali riguardano principalmente le articolazioni delle dita delle mani e i polsi, con interessamento solitamente simmetrico. Il processo infiammatorio che caratterizza questa patologia autoimmune ha carattere erosivo e può portare a una completa distruzione delle strutture articolari colpite dall’artrite. L’artrite può interessare soggetti di qualsiasi età, ma è più frequente nei soggetti di sesso femminile tra i 40 e i 50 anni.
La malattia è provocata da un’attivazione anomala del sistema immunitario contro la membrana sinoviale (la membrana che riveste le articolazioni). Sebbene la causa di questa malattia sia ancora sconosciuta, è noto che la concomitanza di diversi fattori – ambientali, genetici, ormonali e infettivi – ne favorisce lo sviluppo attraverso complessi meccanismi.
Le manifestazioni cliniche dell’artrite sono i segni dell’infiammazione delle articolazioni, che diventano arrossate, gonfie e dolenti, con incapacità a utilizzarle. A livello delle mani le sedi più colpite dall’artrite sono le articolazioni metacarpofalangee e interfalangee prossimali e i polsi. Oltre alle articolazioni, l’artrite può colpire anche i tendini circostanti causando deformità alle dita delle mani. Il paziente, inoltre, può riferire sintomi non articolari tra cui stanchezza, malessere generale, perdita di peso, indolenzimento muscolare, febbre, secchezza degli occhi e della bocca.
Data la natura autoimmune di questa patologia, è complesso parlare di prevenzione, ma alcuni comportamenti possono comunque essere messi in pratica per migliorare il benessere delle articolazioni. È bene quindi evitare condizioni come sovrappeso e obesità perché l’eccesso di peso contribuisce all’infiammazione delle articolazioni e quindi serve mantenersi fisicamente attivi per preservare il più a lungo possibile l’elasticità e il funzionamento delle articolazioni.
DIAGNOSI
La diagnosi di artrite deve essere il più precoce possibile e si basa sul riconoscimento dei sintomi e segni riferiti dal paziente e osservati durante la visita medica. Inoltre alcuni esami possono aiutare il medico nella definizione della diagnosi:
• analisi del sangue
• radiografie
• ecografie
TRATTAMENTI
Per questa patologia non esiste una cura definitiva, l’obiettivo dei trattamenti è ridurre i sintomi prima che le articolazioni interessate dall’infiammazione siano danneggiate in modo permanente.
I farmaci utilizzati nell’artrite reumatoide sono suddivisi in quattro classi:
• anti-infiammatori non steroidei (FANS): sono utilizzati per ridurre rapidamente l’infiammazione articolare e l’intensità dei sintomi, ma non hanno alcun effetto sulla progressione della malattia;
• corticosteroidi: intervengono sull’infiammazione in qualsiasi fase, sia precoce che tardiva, ma il loro utilizzo deve essere limitato, in quanto possono indurre importanti effetti collaterali;
• DMARDs (Disease Modifying Anti-Rheumatic Drugs): sono farmaci in grado di migliorare notevolmente i sintomi, la funzionalità articolare e la qualità di vita della maggior parte dei pazienti con artrite reumatoide;
• farmaci biologici: agiscono specificatamente su alcune molecole prodotte dall’organismo di chi è affetto da artrite reumatoide e che sono dannose per le articolazioni e gli organi eventualmente coinvolti.
La malattia di Dupuytren è un anormale ispessimento del tessuto fibroso che sta tra la pelle e i tendini del palmo della mano che può limitare il movimento di uno o più dita. In alcuni casi si forma un cordone al di sotto della pelle teso tra il palme verso le dita. Il cordone può causare la flessione delle dita verso il palmo in modo che non sia più possibile la loro estensione.
A volte la malattia provoca un ispessimento della pelle delle nocche delle dita. Questo può avvenire anche nella pianta dei piedi.
TRATTAMENTO
Un intervento chirurgico può ridurre la flessione delle dita, che in alcuni casi col tempo si può ripresentare.
Lo scopo della chirurgia per la malattia di Dupuytren è di ripristinare l’uso normale delle dita. Il chirurgo della mano può valutare caso per caso se l’intervento chirurgico sia indicato.
Alcune considerazioni sulla chirurgia: la presenza di un nodulo nella mano non significa che sia necessario un intervento chirurgico; la flessione della dita è solitamente correggibile con un intervento chirurgico; la chirurgia potrebbe non eliminare completamente la flessione delle dita; talvolta degli innesti di cute sono necessari per ricoprire delle aree che rimarrebbero altrimenti scoperte con l’intervento chirurgico.
Talvolta vengono utilizzati dei tutori per aiutare le dita a mantenersi diritte dopo la chirurgia; un fisioterapista della mano può essere d’aiuto nel periodo post-operatorio per ridurre il gonfiore e per migliorare la mobilità delle dita.
La tenosinovite stenosante, più comunemente nota come dito a scatto, rappresenta un processo infiammatorio del rivestimento sinoviale della guaina tendinea; di solito è causata da un sovraccarico funzionale o da microtraumatismi ripetuti ai tendini flessori. L’evoluzione del processo infiammatorio comporta delle alterazioni strutturali e volumetriche con ispessimento sino a un aumento delle dimensioni dei tendini nel contesto del canale digitale; lo scatto rappresenta l’elemento più caratteristico con conseguente difficoltà al movimento della flesso-estensione del dito coinvolto, dolore e gonfiore locale.
TRATTAMENTI
Trattamento medico
A seconda della gravità dei sintomi della tenosinovite stenosante, si può procedere nelle prime fasi con la terapia antiinfiammatoria anche con un’infiltrazione cortisonica.
Trattamento chirurgico
La tenosinovite stenosante solitamente viene curata con il trattamento chirurgico che prevede un intervento di apertura della guaina tendinea (puleggia) per liberare i tendini e permettere il loro scorrimento.
L’intervento non è particolarmente doloroso; si esegue in anestesia locale e la durata è di pochi minuti. Il dito operato può essere mosso da subito.
La mano e il dito operato vanno mobilizzati subito e di solito il recupero funzionale richiede 2-3 settimane, tenendo conto della risoluzione delle aderenze pericicatriziali. Come tutte le procedure chirurgiche c’è un rischio di recidiva, ma tale evenienza è scarsa.
Va segnalato che se il trattamento chirurgico è ritardato può permanere una rigidità articolare.
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