Che cosa sono le vene e capillari?
La comparsa di vene e dei capillari, a livello degli arti inferiori, può essere segnale di patologie venose; esse colpiscono gli uomini ma colpiscono soprattutto donne per cause di tipo ormonale (terapia ormonale sostitutiva ad esempio in menopausa) o conseguenti alla gravidanza (gli ormoni della gravidanza provocano una diminuzione del tono vascolare; inoltre l’aumento della pressione addominale da parte dell’utero gravido comporta un alterato deflusso venoso).
I sintomi e i segni delle vene e capillari
I sintomi che i pazienti lamentano in caso di insufficienza venosa sono generalmente pesantezza, gonfiore delle caviglie, formicolio, prurito, crampi notturni, fino al dolore e possono tradursi in inestetismi come piccoli capillari sino allo sviluppo di iperpigmentazione della pelle e vene varicose. Queste ultime possono in seguito complicarsi in flebiti e trombosi.
TRATTAMENTI
Trattamento medico delle vene e capillari
Il chirurgo vascolare effettua una visita preliminare per valutare la necessità o meno di approfondimento mediante un eco-color Doppler (esame non invasivo e per nulla doloroso) con il quale si possono escludere patologie importanti e stabilire se è sufficiente una terapia medica (elastocompressiva e /o farmacologica – flavonoidi) oltre alla correzione di eventuali abitudini sbagliate (sedentarietà, lavoro prolungato in posizione eretta, caldo eccessivo, stipsi, sovrappeso) o, invece, se è necessario, oltre alla correzione delle abitudini, intervenire anche chirurgicamente.
Trattamento chirurgico delle vene
Per risolvere le patologie delle varici vengono effettuati interventi chirurgici tradizionali quali la safenectomia (stripping), la legatura delle varici (flebectomie) e l’intervento di termo ablazione della safena con il LASER, a discrezione dello specialista che valuta il paziente.
Trattamento post chirurgico e dermatologico delle venuzze e capillari
Una volta risolta la patologia varicosa è possibile intervenire sull’aspetto estetico delle gambe curando “venuzze” e capillari con la scleroterapia o laserterapia a seconda delle caratteristiche del vaso da trattare. Tutto ciò non è ovviamente risolvibile in un’unica seduta ma verrà stabilito, sempre dallo specialista, a seconda della quantità di vasi di trattare.
L’angina pectoris (dal latino: angoscia) è un dolore che si manifesta al petto e nelle aree circostanti – braccia, collo, schiena e anche mandibola – in seguito a un debito di ossigeno che riguarda il cuore.
Tipicamente il sintomo si manifesta sotto sforzo, perché l’ostruzione parziale del vaso limita l’afflusso di sangue e conseguentemente determina un debito di ossigeno che causa la comparsa del sintomo.
Il meccanismo che determina l’ostruzione delle coronarie, arterie del cuore, è l’aterosclerosi che è dovuta a depositi intravascolari di grassi (colesterolo e trigliceridi). In relazione all’entità della placca si avrà un restringimento del vaso che diventa significativo quando è superiore al 70% e quindi impedisce il normale fluire del sangue che provoca la cosiddetta ischemia al muscolo cardiaco.
L’angina pectoris può, appunto, essere uno dei sintomi dell’ischemia ma può dipendere anche da un cattivo funzionamento delle valvole cardiache o da aritmie o ancora da anemia, cioè dalla presenza di poca emoglobina o globuli rossi nel sangue.
L’angina pectoris può inoltre mostrarsi sotto forma di affaticamento o difficoltà a respirare e di irrigidimento a braccia, gomiti e polsi, soprattutto del lato sinistro del corpo. Può verificarsi a riposo o alla fine di uno sforzo fisico. Il dolore dell’angina si differenzia da quello provocato dall’infarto perché quest’ultimo è più intenso, dura di più e non se ne va con l’assunzione di farmaci o quando ci si riposa.
DIAGNOSI
Sono molti gli esami che consentono di verificare il buono o cattivo funzionamento del cuore e che permettono di risalire alle cause dell’angina pectoris. Quello più diffuso è l’elettrocardiogramma, attraverso cui viene registrato e verificato il ritmo cardiaco e la presenza di anomalie della ripolarizzazione indicative di ischemia. In realtà la presenza di ischemia deve essere verificata con l’elettrocardiogramma sotto sforzo che prevede l’esecuzione dell’elettrocardiogramma in continuo mentre viene eseguito un esercizio su una pedana in cui il paziente viene invitato a camminare o correre o su una cyclette.
Un altro esame che viene utilizzato per verificare il funzionamento del cuore è l’ecocardiogramma, grazie al quale il medico specialista può visualizzare il cuore del paziente su uno schermo.
Infine, gli stessi risultati possono essere ottenuti grazie all’utilizzo della scansione nucleare (scintigrafia), che prevede la fotografia del cuore attraverso uno speciale apparecchio che, con l’utilizzo di un liquido di contrasto, mette in evidenza le parti del cuore meno ossigenate.
L’esame cardine è però la coronarografia che prevede, previa anestesia locale, l’inserimento di un sottile catetere che viene condotto dall’arteria dell’inguine o del braccio fino al cuore e quindi, in seguito all’iniezione di mezzo di contrasto intracoronarico, grazie a immagini a raggi X è in grado di evidenziare la presenza di stenosi che ostruiscono le coronarie.
TRATTAMENTI
Il dolore provocato dall’angina pectoris può essere prevenuto o sedato attraverso l’uso di farmaci, che però non sono in grado di intervenire sulla malattia che ne può essere la causa. Nei casi in cui siano presenti danni coronarici occorre ricorrere a procedure come l’angioplastica coronarica o l’innesto di bypass aorto-coronarico.
L’arteriopatia periferica si sviluppa quando le arterie si ostruiscono e non sono più in grado di portare con normale regolarità tutto il nutrimento di cui avrebbe bisogno il nostro corpo. Questo “intasamento” è spesso causato da un indurimento e da un restringimento delle arterie, che non si presentano più lisce ma ostruite da una placca la quale non consente il corretto flusso di sangue e ossigeno: è un processo ben noto con il nome di arteriosclerosi.
La patologia, che spesso si verifica con l’avanzare dell’età, è più frequente nei soggetti diabetici o fumatori. Per questo occorre prevenirla con una dieta equilibrata, tenendo sotto controllo i livelli di zucchero nel sangue, riducendo il colesterolo, smettendo di fumare e praticando un regolare esercizio fisico.
DIAGNOSI
Di solito l’arteriopatia periferica si presenta sotto forma di un forte dolore a livello degli arti inferiori (polpaccio, coscia, natiche) che ha reso nota questa patologia come “sindrome delle vetrine”. È infatti tipico accusarne i sintomi mentre si passeggia, ritrovarsi quindi a zoppicare e infine decidere di fermarsi fingendo di guardare le vetrine circostanti per alleviarlo. Tuttavia questo sintomo viene spesso trascurato o minimizzato (si confonde con gli acciacchi dell’età) e non porta invece a considerare gli altri segnali attraverso cui si può verificare: il colore della cute del piede (pallido o cianotico) oppure la temperatura di un arto rispetto all’altro.
Per questo è importante rivolgersi con tempestività a un chirurgo vascolare e sottoporsi a esami specifici. In primo luogo si dovranno verificare l’aspetto, la temperatura, la pulsazione arteriosa e il flusso di sangue dell’arto colpito, senza poi escludere la presenza di eventuali lesioni. Per quanto riguarda gli esami strumentali è possibile sottoporsi a un indice caviglia-braccio (ABI) che consente invece di verificare il flusso e la pressione del sangue alla caviglia e al braccio. Per verificare la presenza di eventuali lesioni sarà infine necessario sottoporsi a un eco-doppler.
TRATTAMENTI
Il primo passo nel trattamento dell’arteriopatia periferica è l’abolizione dei fattori di rischio più diffusi (colesterolo, diabete, fumo) mentre nei casi più complessi è possibile avviare anche una cura con farmaci antiaggreganti o vasoattivi.
Nel caso in cui vi sia una forte occlusione delle arterie sarà tuttavia necessaria una rivascolarizzazione tramite intervento chirurgico: angioplastica, stent o (nei casi più gravi) bypass.
La cardiomiopatia dilatativa (miocardiopatia dilatativa) è una condizione che si verifica quando la cavità cardiaca si allarga in seguito a una perdita di forza di contrazione del muscolo cardiaco, riducendo così in maniera sensibile la capacità che ha il cuore di pompare il sangue. L’origine della dilatazione del ventricolo (di solito il sinistro) del cuore, è dovuta a cause molteplici: ischemiche (pregresso infarto o aterosclerosi), valvolari (generalmente insufficienza mitro-aortica), virali (ad esempio miocardite acuta), concomitant ad un’altra patologia cardiaca (ad esempio neuromuscolare o collagenopatia), dovute all’assunzione di farmaci (chemioterapici come doxorubicina ciclofosfamide) all’abuso di alcolici o droghe (cocaina).
DIAGNOSI
Di solito questa condizione è associata ai classici segni di scompenso cardiaco che si manifestano sotto forma di affaticamento in presenza di sforzo o a difficoltà respiratorie (dispnea) sia di giorno, sia di notte e in condizione di riposo. Altri disturbi più specifici da tenere sotto controllo per riconoscere i sintomi della cardiomiopatia dilatativa sono gli edemi declivi, le aritmie (sia lente – brachicardia, che veloci, tachicardia) e la cardiopatia ischemica.
A fronte di un quadro così variegato è bene sottoporsi a esami medici che valutino l’eventuale insorgenza della patologia con diversi gradi di approfondimento: si va dai test basilari (elettrocardiogramma) a verifiche più circostanziate come l’ecocardiogramma e il cateterismo cardiaco, che servono rispettivamente per valutare le dimensioni e la funzione del cuore e per escludere l’origine ischemica della cardiopatia.
TERAPIA
Le terapie per la cardiomiopatia dilatativa variano a seconda della gravità. Il primo passo da intraprendere è di certo la scelta di una dieta a basso contenuto di sale, successivamente si potranno considerare le terapie farmacologiche a base di vasodilatatori, diuretici, betabloccanti e talvolta anticoagulanti (per evitare le tromboembolie), mentre per quanto riguarda i casi più gravi il trattamento da intraprendere sarà l’impianto di pacemaker biventricolare antiscompenso associato o meno a defibrillatore. In casi di particolare gravità e fino all’età relativamente giovane, anche il trapianto di cuore.
L’occlusione (stenosi) delle arterie coronariche si sviluppa quando le arterie coronariche – cioè i vasi sanguigni che conducono al cuore il sangue, l’ossigeno e le sostanze per lui nutritizie – si danneggiano a causa di placche che si formano al loro interno a causa dell’accumularsi del colesterolo.
Queste placche restringono lo spazio in cui scorre il sangue riducendone la quantità che arriva al cuore. La diminuzione del flusso sanguigno causa un insufficiente nutrimento del muscolo cardiaco in condizioni di aumentata domanda (ad esempio uno sforzo fisico) causando il tipico dolore al petto (angina pectoris) che si verifica quando la richiesta di sangue da parte del miocardio (il tessuto muscolare del cuore) è superiore all’offerta data dai vasi coronarici stenotici. Questa situazione reversibile può peggiorarsi quando si ha una chiusura completa di una o più arterie coronariche, sfociando nell’attacco di cuore o infarto cardiaco (infarto miocardico).
L’occlusione coronarica si sviluppa spesso nel corso di decenni, per questo può passare inosservata fino al momento in cui sopravvengono sintomi tipici, come l’angina o la mancanza di fiato (la dispnea).
Per questo occorre prevenirla con stili di vita sani e un’alimentazione attenta e corretta.
DIAGNOSI
Si sospetta l’esistenza di una malattia coronarica quando in capo a una persona si presentano sintomi associati a fattori di rischio, soprattutto quando si è in presenza di una storia famigliare di malattia coronarica.
I fattori di rischio da tenere in considerazione sono vari e vanno dall’alto livello di colesterolo nel sangue alla presenza di diabete, dall’obesità al sesso maschile, dall’ipertensione arteriosa al fumo di sigarette.
L’occlusione delle arterie può essere scoperta attraverso l’esame non invasivo della prova da sforzo (test ergometrico), che viene effettuata al cicloergometro, con monitoraggio con elettrocardiogramma o ecocardiogramma. Nel caso in cui questo test risulti positivo o comunque non sia in grado di fornire una risposta certa, la verifica o la ricerca di ostruzioni coronariche viene effettuata attraverso la coronarografia, esame nel corso del quale un piccolo catetere viene inserito in un’arteria – partendo da un braccio o dall’inguine – e spinto fin verso il cuore.
Attraverso l’iniezione di un liquido di contrasto nelle arterie coronariche è possibile individuare le eventuali ostruzioni. La coronarografia consente di identificare con precisione le regioni coronariche coinvolte e il grado di stenosi presente.
TERAPIA
Quando la malattia coronarica viene accertata, ci sono numerose opzioni di trattamento, che includono la terapia medica, l’angioplastica e la chirurgia.
Il bypass coronarico rappresenta il più comune intervento di cardiochirurgia. La buona riuscita dell’intervento porta alla scomparsa del dolore al petto (angina), alla ripresa dell’attività fisica quotidiana e a un’aspettativa di vita migliorata. Un altro intervento è quello di angioplastica coronarica, che prevede la dilatazione di un piccolissimo palloncino nei punti in cui la coronaria presenta delle placche, dove in precedenza sono stati posizionati dei piccoli supporti metallici (stent).
Il bypass coronarico è una procedura chirurgica, l’angioplastica coronarica è una procedura di emodinamica (cardiologia interventista). I due interventi non sono alternativi tra loro, ma trovano applicazione a seconda della patologia coronarica su cui è necessario intervenire.
Per ipertensione si intende l’aumento della pressione del sangue, cioè dei valori della pressione arteriosa, minima e massima.
La pressione arteriosa è determinata dalla quantità di sangue che il cuore pompa nelle arterie e dalla resistenza al flusso che il sangue può incontrare nel suo percorso. L’aumento della pressione fa sì che il sangue prema contro le pareti delle arterie minacciandone la struttura.
Si può essere soggetti a ipertensione per interi anni senza avere sintomi. Meglio dunque controllare a intervalli regolari, soprattutto se si è persone anziane, la pressione, per cercare di evitare gravi danni alla salute, come quelli procurati da infarto e ictus.
L’ipertensione può essere causata da fattori genetici o fisiologici (per esempio l’età avanzata), da alterazioni patologiche, fattori ambientali (come stress, fumo, obesità) o da un eccessivo consumo di sale.
Nel 90-95% dei casi l’ipertensione è di origine primaria e viene definita “ipertensione essenziale”. Quando invece deriva dalla presenza di altre patologie – come ad esempio stenosi delle arterie renali, malattie dei reni o dei surreni, malattie della tiroide – assume la qualifica di “secondaria”.
DIAGNOSI
La misurazione della pressione viene abitualmente effettuata attraverso l’utilizzo dello sfigmomanometro, lo strumento che viene avvolto attorno al braccio e che è provvisto di una camera d’aria – che viene gonfiata dal medico con una piccola pompa di gomma collegata – e da un manometro su cui vengono indicati i valori minimi e massimi della pressione.
All’uso dello sfigmomanometro viene affiancato quello del fonendoscopio, con cui vengono ascoltati i rumori dell’arteria del braccio mentre viene effettuata la misurazione. Per ottenere una diagnosi di ipertensione è necessario misurare la pressione arteriosa per almeno tre volte nell’arco di un mese.
Utili a offrire una precisa diagnosi di ipertensione sono anche l’anamnesi clinica – che serve a raccogliere quante più informazioni relative allo stato di salute presente e passato del paziente – e l’esame obiettivo con la misurazione dei battiti del cuore, effettuata attraverso una leggera pressione esercitata a livello del polso.
Una volta verificata l’esistenza di ipertensione arteriosa è necessario escludere la presenza di rischi cardiovascolari per il paziente. Per questo vengono disposti esami delle urine e del sangue, oltre a elettrocardiogramma, ecocardiogramma-Doppler, radiografia del torace ed esame del fondo dell’occhio.
TRATTAMENTO
L’obiettivo del trattamento è quello di ridurre la pressione arteriosa. Questa può essere tenuta sotto controllo grazie a un corretto stile di vita, che preveda il rispetto di alcuni comportamenti quali non fumare, non bere alcolici, mantenere un peso corporeo adeguato, fare almeno 30 minuti di esercizio fisico al giorno, bere molta acqua.
Non sempre però questi accorgimenti sono sufficienti per tenere la pressione arteriosa nei livelli di non rischio. In tal caso i pazienti devono dunque sottoporsi a un percorso farmacologico per un periodo di tempo indeterminato.
I farmaci antiipertensivi rientrano per lo più nelle seguenti categorie: diuretici, ACE inibitori, antagonisti dell’angiotensina II, calcioantagonisti, beta bloccanti e alfalitici.
La Sindrome di Brugada è un’entità clinica descritta solo dal 1992. E’ una patologia geneticamente determinata e quindi trasmissibile. E’ legata a un’alterata funzionalità di una parte della membrana cellulare della cellula cardiaca detta “canale ionico” perché, per l’appunto, regola il passaggio dello ione sodio. Tale alterazione causa un’aumentata eccitabilità della cellula cardiaca determinando la possibilità d’insorgenza di aritmie anche letali. In genere il sospetto della presenza della Sindrome di Brugada avviene a seguito all’esecuzione di un elettrocardiogramma che mostra segni particolari: un ritardo di conduzione lungo la branca destra ed un sopraslivellamento del tratto ST in V1 – V2. A seconda della forma di questo sopraslivellamento sono state descritti tre “pattern” (morfologie) ECGrafiche: il tipo 1 offre una certezza della presenza di alterazioni, il tipo 2 e il tipo 3 sono sospetti. Il fatto di avere alterazioni ECGrafiche non vuole dire essere affetti dalla sindrome di Brugada, cioè di essere a rischio di aritmie gravi, ma deve spingere ad ulteriori accertamenti.
Una particolarità di questa Sindrome consiste nel fatto che – poiché il canale iodico del sodio ha una funzionalità diversa in base alla temperatura corporea – le alterazioni ECGrafiche sono più frequenti durante la febbre.
DIAGNOSI
Visita aritmologica con ECG, attenta raccolta dell’anamnesi (una storia di sincopi, una storia familiare di morte improvvisa identificano soggetti a rischio aumentato), indagini genetiche tese all’identificazione di soggetti portatori di anomalie del gene SCN5A (una positività a tale indagine è però presente solo in circa il 20% dei soggetti).
TRATTAMENTO
Nei soggetti ad elevato rischio l’unica terapia affidabile è l’impianto di un defibrillatore impiantabile (ICD); nei soggetti già portatori di ICD che ricevono numerosi interventi per aritmie, può essere tentata la somministrazione in cronico di chinidina.
La sindrome di Wolff – Parkinson – White (WPW) è una forma particolare di tachicardia sopraventricolare nella quale viene coinvolto – oltre al normale circuito di conduzione – anche un fascio di conduzione accessorio (una sorta di “filo elettrico in più”), presente sin dalla nascita. In genere si riscontra in persone che soffrono di episodi di tachicardia sin da bambini o addirittura neonati, perché questo fascio accessorio è presente sin dalla nascita.
A differenza della tachicardia da doppia via nodale, la presenza di questa sindrome può talora essere riconosciuta anche con un semplice ECG, perché determina dei segni ECGrafici specifici. Siccome questo “filo elettrico” accessorio è talora in grado di condurre impulsi elettrici ad alta velocità, in una percentuale di casi che è stata descritta sino allo 0.4% può esserci un rischio di mortalità. Per questo motivo, in presenza di un evidente sindrome di WPW all’ECG di superficie, è quasi sempre consigliabile eseguire uno studio elettrofisiologico che da informazioni precise sulle capacità conduttive del fascio accessorio.
DIAGNOSI
Visita aritmologica con ECG, ECG dinamico sec. Holter, looprecorder, test da sforzo al cicloergometro, studio elettrofisiologico.
TRATTAMENTI
Terapia farmacologica (in genere usata negli anziani), ablazione con radio frequenza o crioenergia.
Si è in presenza di patologia mitralica quando la valvola mitrale, cioè la valvola d’ingresso del sangue per la parte sinistra del cuore, presenta una stenosi (restringimento) o una insufficienza (perdita). Per capire quali siano le conseguenze delle due situazioni, occorre ricostruire il percorso effettuato dal sangue. Questo giunge al cuore attraverso il circolo polmonare dove il sangue si è arricchito di ossigeno, proprio attraverso la valvola mitrale che, quando è aperta, consente il flusso del sangue nella camera principale di pompaggio del cuore, il ventricolo sinistro. Richiudendosi, la valvola impedisce che il sangue torni ai polmoni quando il ventricolo si contrae per pompare il sangue nell’organismo.
L’intervento chirurgico può essere necessario quando la valvola mitralica si apre o si chiude in modo non corretto. Quando questa è troppo stretta (stenotica) non lascia entrare il sangue nel ventricolo, causando una congestione di sangue nel circolo polmonare. Per questo nei momenti in cui il soggetto compie azioni che richiedono sforzi di particolare intensità il cuore non riesce ad aumentare – come l’organismo richiederebbe – la quantità di sangue da pompare, sovraccaricando il circolo polmonare con il rischio di edema polmonare.
Se, al contrario, i lembi della valvola mitralica non si chiudono correttamente nel momento in cui il ventricolo pompa il sangue in periferia, si dice che la valvola perde (è insufficiente). In questo caso il sangue tende a tornare indietro, nei polmoni, ogni volta che c’è una contrazione del cuore, che per questo fatto è costretto a pompare più sangue per cercare di mantenere la giusta quantità da distribuire all’organismo. Il risultato è il cosiddetto “sovraccarico di volume” del cuore, che può essere portato avanti per mesi e anni senza avere sintomi, fino a quando l’insufficienza si sviluppa lentamente e progressivamente.
Le patologie che riguardano la valvola mitrale sono, per la maggior parte dei casi, causate dal logorio delle valvole che può essere generato con il trascorrere dell’età. Ma questa “malattia degenerativa” può riguardare persone giovani, anche a causa di febbri reumatiche o da infezioni o endocarditi batteriche, che colpiscono cioè il tessuto che riveste le cavità e le valvole del cuore. La valvola mitrale può inoltre essere danneggiata in seguito a patologie del ventricolo sinistro come conseguenza di infarto miocardico (mitrale ischemica) e, anche se in rari casi, può avere un’origine congenita, in seguito a un difetto, cioè, presente fin dalla nascita.
DIAGNOSI
Chi è affetto da stenosi (restringimento) della valvola mitralica, e quindi gode di una minore quantità di cuore pompato dal cuore nell’organismo, può soffrire vari sintomi, il primo del quale è la difficoltà di respirare correttamente (dispnea), a causa del sovraccarico di sangue nei polmoni. Un altro sintomo causato da questa patologia è l’insorgenza di aritmie, come la fibrillazione atriale, causate da dilatazione dell’atrio sinistro (la camera a monte del ventricolo sinistro).
Gli stessi sintomi – mancanza di respiro e debolezza (astenia) – sono mostrati nel caso in cui le valvola non si chiuda correttamente, quando il cuore non è più in grado di sostenere, aumentando la sua azione di pompaggio – la “perdita” di sangue e il suo ritorno da dove è arrivato, cioè nei polmoni. Se non si procede per tempo, a lungo andare il danneggiamento del cuore, in questo caso, può diventare irreversibile.
La diagnosi di patologia mitralica viene effettuata con l’ecocardiografia cardiaca.
TRATTAMENTI
Interventi chirurgici effettuati prima che la degenerazione della valvola abbia raggiunto livelli preoccupanti possono prevenire il danneggiamento irreversibile del cuore. In alcuni casi anche il trattamento farmacologico può alleviare notevolmente i sintomi, anche se solo per un certo tempo.
L’intervento chirurgico viene deciso quando si diagnostica un’insufficienza severa con l’ecocardiografia cardiaca. La sintomatologia del paziente deve essere presente anche se è necessario considerare, in presenza di sintomatologia non chiara o sfumata, le condizioni del ventricolo sinistro sottoposto a un iperlavoro con conseguente grave disfunzione che rischierebbe di diventare irreversibile.
Spesso la valvola è talmente danneggiata da richiedere la sua sostituzione. In altri casi può essere semplicemente riparata. La riparazione della valvola nativa è riservata principalmente a casi di insufficienza mitralica. La maggior parte delle riparazioni però viene eseguita quando si presenta il caso di una malattia degenerativa, che porta a una rottura o a un allungamento dei componenti della valvola. In questo caso si può procedere alla rimozione dei segmenti rotti e all’accorciamento di quelli allungati, piazzando corde sintetiche al posto di quelle rotte o allungate.
In caso di stenosi mitralica l’intervento effettuato più di frequente è la sostituzione valvolare mitralica (con bioprotesi o protesi meccanica). La plastica mitralica è riservata a taluni casi, visto che i lembi mitralici sono talmente danneggiati (ispessiti e rigidi) dalla patologia reumatica da rendere difficile e poco efficace la riparazione.
La sostituzione deve essere disposta quando le riparazioni non sono in grado di assicurare una guarigione. Questo succede quando a causa di una malattia reumatica la mitrale risulta tanto danneggiata da dover essere sostituita con una protesi valvolare artificiale. In linea generale, sono disponibili due tipi di valvole artificiali: le valvole meccaniche, composte da metallo e/o carbonio pirolitico e le valvole biologiche, fatte con tessuti animali.
Sia la riparazione, sia la sostituzione della valvola mitrale sono interventi che vengono eseguiti dal cardiochirurgo.
La tachicardia ventricolare – TV – è un’aritmia caratterizzata da un’improvvisa accelerazione del battito cardiaco (tachicardia: cuore veloce) che origina dai ventricoli. Si definisce monomorfa se tutti i battiti hanno la stessa morfologia all’elettrocardiogramma, ossia se originano dallo stessa zona del ventricolo; si dice polimorfa in caso contrario. In base alla durata si distinguono tachicardie ventricolari sostenute (che durano più di 30”) o non sostenute.
Di solito le tachicardia ventricolari si verificano in presenza di cardiopatie organiche del cuore, come nelle cardiopatie post – infartuali o nelle cardiopatie dilatative idiopatiche (idiopatico = senza causa specifica), o in alcune forme geneticamente determinate di cardiomiopatia, come la displasia aritmogena del ventricolo destro, il miocardio non compatto o la cardiopatia da deficit di lamina.
Alla base di queste aritmie vi è un’estrema contiguità tra zone cicatriziali (o fibrose) e zone di tessuto sano, e questa “alternanza” è responsabile di una sorta di corto circuito elettrico (nel quale un impulso elettrico continua a girare continuamente nella stessa zona) che è la base della tachicardia ventricolare. La forma più frequentedi TV è quella presente nei pazienti con cardiopatia post – infartuale nella quale la cicatrice dell’infarto si trova adiacente ad una zona di tessuto sano. Più raramente le TV derivano da “isole” anomale di cellule ventricolari che generano automaticamente impulsi elettrici accelerati.
In base alla presenza, al tipo e alla gravità della cardiopatia associata, le tachicardie ventricolari sono associate a prognosi più o meno maligne.
DIAGNOSI
Visita aritmologica con ECG, ECG dinamico sec. Holter, ecocardiogramma, studio elettrofisiologico endocavitario.
TRATTAMENTI
Farmaci antiaritmici, impianto di defibrillatore (ICD), ablazione con radiofrequenza o crioenergia.
L’aritmia cardiaca è un’irregolarità del battito del cuore, che batte troppo lentamente, troppo velocemente o comunque in modo irregolare.
Esistono differenti tipi di aritmia e la maggior parte non è particolarmente pericolosa; alcune potrebbero invece essere rischiose per la vita e richiedono un controllo medico immediato:
un ritmo cardiaco troppo veloce prende il nome di tachicardia perchè “tachy” in greco significa veloce.
un ritmo cardiaco troppo lento prende il nome di bradicardia, perchè “brady” in greco significa lento.
altri irregolari ritmi cardiaci vengono indicati semplicemente con il termine aritmia.
Esistono diverse ragioni che determinano l’aritmia, che può sopraggiungere se:
– il nodo senoatriale non è in grado di determinare abbastanza battiti cardiaci.
– Il ritmo del nodo sinoatriale diventa anormale.
– Se altre aree degli atri assumono la stessa funzione del nodo sinoatriale.
L’aritmia che comincia dagli atri prende il nome di aritmia atriale, quella che invece comincia nei ventricoli prende il nome di aritmia ventricolare, generalmente più pericolose.
La maggior parte delle aritmie non è pericolosa ma, se una persona avverte un anomalo battito cardiaco e pensa che si potrebbe trattare di un’aritmia, allora è opportuno farsi visitare da un medico perchè in rari casi possono anche essere fatali. Si tratta più frequentemente delle aritmie legate a malattie del cuore. La ragione per cui alcune forme sono pericolose è che un battito cardiaco irregolare può compromettere la capacità del cuore di pompare abbastanza sangue, questo potrebbe determinare una bassa pressione sanguigna, che potrebbe anche portare alla morte.
Altre aritmie sopraggiungono se c’è un interruzione nel circuito elettrico del cuore, portando i ventricoli a battere separatamente dagli atri.
Nel peggiore dei casi i ventricoli non sono più in grado di battere, creando una condizione chiamata fibrillazione ventricolare. Quando ciò si verifica il cuore non riesce a pompare e il il paziente decede in temi brevi. La ragione più comune di una morte improvvisa è appunto la fibrillazione ventricolare.
Il trattamento potrebbe richiedere medicinali a lungo termine, raramente sono necessari interventi chirurgici per impiantare defibrillatori o pacemaker.
L’aritmia cardiaca può avere origine da diverse cause:
Alcune persone nascono con un ritmo cardiaco irregolare.
Altre persone potrebbero avere l’aritmia se sono solite consumare tabacco, alcoolici o caffeina. Anche le droghe illegale possono indurre l’aritmia.
Alcune persone sviluppano l’aritmia dopo aver assunto pillole per la dieta o alcuni tipi di medicinali.
Anche le malattie del cuore possono causare l’aritmia. Le ragioni più comuni dell’aritmia sono l’infarto e la dilatazione del cuore causata da una pressione sanguigna troppo alta.
Alcune condizioni cliniche, come la tiroide sovrafunzionante, possono altresì condurre all’aritmia.
I sintomi di una aritmia possono essere diversi e svariati, infatti quando il ritmo cardiaco diventa irregolare il soggetto potrebbe avvertire una delle seguenti sensazioni a livello del petto:
– palpitazioni,
– dolori lancinanti,
– pulsazioni,
– tremolio,
– sentirsi come se il cuore non battesse.
Nelle aritmie più gravi, le persone si sentono deboli o hanno le vertigini.
DIAGNOSI
Dopo un attento esame della storia medica e dopo un accurato esame fisico, il dottore potrebbe prescrivere dei test per accertare se il paziente abbia l’aritmia e, in caso positivo, di quale tipo si tratta.
L’aritmia cardiaca viene diagnosticata con un elettro-cardiogramma, chiamato anche ECG. Quest’esame dura solo 5 minuti, e gli elettrodi vengono collocati sul petto in modo da registrare gli impusli elettrici del cuore.
Siccome alcune forme non si presentanto con costanza, durante un elettro-cardiogramma potrebbe non essere notato nulla di anomalo: in tal caso al paziente potrebbe essere chiesto di indossare un ECG portatile chiamato monitor Holter, in grado di registrare gli impulsi elettrici del cuore per 24 ore, proprio come farebbe un normale ECG.
Se l’aritmia si presenta ogni pochi giorni o ogni poche settimane, il paziente potrebbe indossare un dispositivo registratore, quando il paziente avverte l’aritmia, attiva il dispositivo per registrare un ECG. L’informazione registrate viene poi trasmessa al medico per le analisi. Questo meccanismo viene chiamato monitoraggio transtelefonico.
Il medico potrebbe anche richiedere al paziente di fare attività fisica durante l’ECG, che in tal caso viene dunque chiamato ECG stress test.
E’ importante capire cosa determina l’aritmia cardiaca, proprio per questo il medico controllerà il cuore, la pressione sanguigna, gli zuccheri nel sangue, e i livelli degli ormoni tiroidei. Il medico potrebbe anche richiedere uno studio elettro-fisiologico, o SEF. Durante questa procedura lo specialista inserisce un tubo molto sottile in un vaso sanguigno di un braccio o di una gamba e lo spinge sino ad arrivare al cuore. Il medico può studiare cosa determina l’aritmia e quali farmaci potrebbero essere usati per trattarla.
TRATTAMENTI
Il trattamento dell’aritmia cardiaca dipende dal tipo e dalla sua gravità, molte forme non richiedono alcun trattamento.
In alcuni casi i le terapie farmacologiche potrebbero essere sufficienti a mantenere in ritmo cardiaco nella normalità, altre volte sono necessarie dei diluenti del sangue per prevenire la formazione di grumi nel cuore.
Potrebbe essere utile anche tenere sotto controllo l’alta pressione.
Se nessuno di questi trattamenti riesce a migliorare l’aritmia cardiaca, si devono tentare altre procedure. Il medico potrebbe provare a resettare il ritmo cardiaco attraverso degli shock elettrici, questa procedura è denominata cardioversione o elettroversione.
In certi casi le aritmie sono causate da aree del cuore iperattive: in questo caso il medico potrebbe inserire un tubo sottile attraverso i vasi sanguigni sino al cuore e compromettere i circuiti elettrici causando una sovrastimolazione. Questa procedura è denominata ablazione radiofrequenza.
Nei casi i cui il ritmo cardiaco è troppo lento, potrebbe essere inserito un pacemaker per mantenere il ritmo cardiaco a determinati livelli.
Nei casi in cui invece il ritmo del cuore sia troppo veloce, potrebbe essere impiantato un defibrillatore tramite intervento chirurgico. Il defibrillatore riesce ad avvertire quando il cuore sta battendo troppo velocemente per trasmettere uno shock elettrico al cuore, in modo da far ritornare il battito cardiaco alla normalità.
Il miglior modo per prevenire lo sviluppo di una grave aritmia cardiaca è mantenere il cuore in salute, osservando delle semplici regole comportamentali, quali ad esempio:
1. non fumare,
2. essere fisicamente attivi, sotto la supervisione del medico,
3. seguire una dieta sana ed equilibrata, che sia ricca di fibre e carente di grassi,
4. controllare il livello di colesterolo nel sangue. Se è alto, tenerlo costanetemente sotto controllo,
5. controllare regolamente la pressione del sangue. Se è alta, mantenerla sotto costante controllo,
6. perdere peso se si è obesi,
7. fare regolare esercizio fisico,
8. controllare il livello degli zuccheri nel sangue. Se è elevato, manterlo costantemente sotto controllo,
9. dormire abbastanza durante la notte,
10. gestire lo stress nella propria vita.
Le arterie sono vasi sanguigni che trasportano l’ossigeno e le sostanze nutritive dal cuore al resto dell’organismo: quando sono sane sono flessibili, forti ed elastiche, ma con l’andare del tempo la pressione eccessiva può farne ispessire e indurire le pareti. Quando questo capita il sangue non affluisce più correttamente negli organi e nei tessuti: questo processo è detto arteriosclerosi, od indurimento delle arterie. L’aterosclerosi è una forma particolare di arteriosclerosi, ma i due termini a volte vengono usati come sinonimi: l’aterosclerosi è l’accumulo di grassi all’interno e sulla superficie delle pareti arteriose, sottoforma di placche che impediscono la corretta circolazione del sangue. Le placche, inoltre, possono scoppiare, causando la formazione di un trombo.
L’aterosclerosi spesso è considerata come problema esclusivamente cardiaco, ma può colpire le arterie in qualsiasi zona dell’organismo. È comunque un disturbo che può essere curato e prevenuto.
L’aterosclerosi è una malattia lenta e progressiva che può comparire già durante l’infanzia: non si sa con esattezza quale sia la causa, ma si ritiene che il disturbo potrebbe essere provocato da un danno o da una lesione alla parete interna di un’arteria.
Il danno potrebbe essere causato da:
– Ipertensione
– Ipercolesterolemia (spesso derivante dall’eccesso di colesterolo nell’alimentazione)
– Fumo e altre sorgenti di nicotina
– Diabete
L’indurimento delle arterie è un processo che avviene sul lungo periodo, tra i fattori di rischio per l’aterosclerosi, oltre all’invecchiamento, possiamo ricordare:
– Ipertensione (pressione alta),
– Ipercolesterolemia (colesterolo alto),
– Diabete,
– Obesità,
– Fumo,
– Precedenti famigliari di aneurisma o disturbi cardiaci preesistenti.
I sintomi dell’aterosclerosi, di forma da lieve a grave, dipendono dalle arterie colpite.
Ad esempio:
Se l’aterosclerosi colpisce le arterie cardiache potreste avere sintomi simili a quelli di un infarto, ad esempio:
– dolore al torace (angina),
– male o intorpidimento alle braccia o alle gambe.
Se l’aterosclerosi colpisce le arterie dirette al cervello, potreste soffrire di sintomi come:
– intorpidimento e debolezza improvvisi agli arti,
– difficoltà di parola,
– balbettio inspiegabile,
– debolezza della muscolatura facciale.
Questi sintomi sono da imputare a un attacco ischemico transitorio (TIA) che, se non adeguatamente curato, può trasformarsi in ictus. Prestate inoltre particolare attenzione ai primi sintomi dei problemi circolatori, ad esempio:
– dolore al torace (angina),
– male o intorpidimento alle braccia o alle gambe.
Con una diagnosi e una terapia precoci sarete in grado di impedire che l’aterosclerosi peggiori e potrete prevenire situazioni di emergenza o pericolo. Le complicazioni dell’aterosclerosi dipendono dalla posizione delle arterie colpite, ad esempio:
– Coronaropatia. Se l’aterosclerosi ostruisce le arterie nella zona del cuore, potreste iniziare a soffrire di coronaropatia, che causa dolore al torace (angina) oppure un infarto.
– Carotidopatia. Se l’aterosclerosi ostruisce le arterie vicine al cervello, potreste iniziare a soffrire di carotidopatia, in grado di provocare un attacco ischemico transitorio (TIA) o un ictus.
– Arteropatia periferica. Se l’aterosclerosi ostruisce le arterie delle braccia o delle gambe, potreste soffrire di problemi di circolazione agli arti, definiti arteropatia periferica. La vostra sensibilità al caldo o al freddo diminuirà, aumentando il rischio di ustioni o congelamento. In rari casi, la cattiva circolazione negli arti può causare la morte dei tessuti (cancrena).
– Aneurisma. L’aterosclerosi può anche causare un aneurisma, una grave complicazione che si può verificare in qualsiasi parte dell’organismo. L’aneurisma è un rigonfiamento nella parete arteriosa; il sintomo più comune è il dolore pulsante nella zona colpita. Se l’aneurisma scoppia, potreste ritrovarvi ad affrontare un’emorragia interna molto pericolosa. Di solito si tratta di un evento improvviso e catastrofico, ma è anche possibile che l’aneurisma inizi a perdere lentamente. Se il trombo all’interno dell’aneurisma entra in circolo, potrebbe bloccare un’arteria in qualche punto distante.
DIAGNOSI
Il medico può scoprire i sintomi di un restringimento, di un rigonfiamento o di un indurimento delle arterie durante una normale visita. Tra di essi ricordiamo:
– Battito debole o assente nella parte del corpo sotto l’arteria ostruita,
– Pressione minore nell’arto colpito,
– Sibili (soffi) udibili appoggiando lo stetoscopio sull’arteria,
– Tracce di una massa pulsante (aneurisma) nell’addome o nel retro del ginocchio,
– Ferite e lividi che stentano a guarire nella zona in cui la circolazione è insufficiente.
A seconda dei risultati della visita il medico potrà consigliarvi uno o più esami diagnostici, tra cui:
– Esami del sangue: gli esami di laboratorio sono in grado di individuare l’ipercolesterolemia e l’iperglicemia, entrambi fattori di rischio per l’aterosclerosi. Prima dell’esame dovrete stare a digiuno, bevendo solo acqua, per un periodo variabile dalle nove alle dodici ore. Il medico dovrebbe avvisarvi in anticipo se intende effettuare questi esami durante la visita.
– Ecodoppler: il medico potrebbe usare uno speciale dispositivo ecografico (l’ecodoppler) per misurare la pressione in diversi punti del braccio o della gamba. Le misurazioni possono aiutarlo a stimare il grado di ostruzione e anche la velocità del sangue all’interno delle arterie.
– Indice caviglia-brachiale: quest’esame è in grado di diagnosticare l’aterosclerosi nelle arterie delle gambe e dei piedi. Il medico confronta la pressione a livello della caviglia con quella misurata nel braccio. La misura risultante è detta indice caviglia-brachiale. Se la differenza è maggiore del dovuto, può indicare un’arteropatia periferica, normalmente causata dall’aterosclerosi.
– Elettrocardiogramma (ECG) : l’elettrocardiogramma registra i segnali elettrici diretti verso il cuore. L’ECG spesso è in grado di rivelare un infarto già avvenuto oppure un infarto in corso. Se i sintomi si verificano soprattutto durante l’esercizio fisico, il medico potrebbe chiedervi di camminare su un tapis roulant o di pedalare su una cyclette durante l’esame.
– Test da sforzo: il test da sforzo è usato per raccogliere informazioni sulla funzionalità cardiaca durante un’attività fisica. L’esercizio fisico fa funzionare il cuore meglio e più velocemente rispetto alle normali attività quotidiane, quindi il test da sforzo è in grado di portare alla luce problemi cardiaci che diversamente potrebbero passare inosservati. Il test da sforzo di solito consiste nel camminare su un tapis roulant o pedalare su una cyclette mentre vi vengono controllati il battito cardiaco, la pressione e la respirazione.
– Cateterizzazione cardiaca e angiografia : quest’esame è in grado di stabilire se le arterie coronarie sono ristrette o bloccate. Un catetere (tubicino lungo e sottile) viene introdotto in un’arteria, di solito nella gamba, e guidato fino alle arterie cardiache; attraverso di esso, poi, viene iniettato un mezzo di contrasto liquido. Man mano che il mezzo di contrasto si diffonde nelle arterie, queste diventano visibili nelle radiografie, evidenziando eventuali ostruzioni.
TRATTAMENTI
Le modifiche dello stile di vita, ad esempio seguire una dieta più sana e fare più esercizio fisico, spesso rappresentano la terapia migliore per l’aterosclerosi; in alcuni casi, tuttavia, possono essere consigliabili anche farmaci od interventi chirurgici.
Diversi farmaci possono rallentare o addirittura contrastare gli effetti dell’aterosclerosi, eccone alcuni:
Farmaci anticolesterolo: diminuendo drasticamente il colesterolo LDL (lipoproteine a bassa densità, il cosiddetto colesterolo “cattivo”) si riesce a rallentare o addirittura a sconfiggere l’accumulo di depositi grassi nelle arterie. Anche far aumentare il colesterolo HDL (lipoproteine ad alta densità, il cosiddetto colesterolo “buono”) può essere utile. Il medico può scegliere tra diversi tipi di farmaci anticolesterolo, ad esempio le statine e i fibrati.
Antipiastrinici: il medico può prescrivere farmaci antipiastrinici, ad esempio l’aspirina, per diminuire la probabilità che le piastrine creino grumi che ostruiscono le arterie, formando trombi in grado di causare problemi più gravi.
Betabloccanti: questi farmaci sono usati di frequente per le coronaropatie. Rallentano il battito cardiaco e fanno diminuire la pressione, diminuendo il fabbisogno del cuore, e spesso riescono ad alleviare i sintomi del’angina. I betabloccanti fanno diminuire il rischio di infarto e di aritmie cardiache.
ACE inibitori (inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina): questi farmaci possono contribuire a rallentare il decorso dell’aterosclerosi, perché abbassano la pressione e hanno altri effetti positive sulle arterie cardiache. Gli ACE inibitori possono anche diminuire il rischio di infarti ricorrenti.
Calcio-antagonisti: sono farmaci che diminuiscono la pressione e in alcuni casi sono usati nella cura dell’angina.
Diuretici: l’ipertensione è uno dei principali fattori di rischio per l’aterosclerosi, i diuretici abbassano la pressione.
Alcuni pazienti, tuttavia, dovranno ricorrere a una terapia più aggressiva. Se i sintomi sono gravi o l’ostruzione dell’arteria minaccia la sopravvivenza dei muscoli o dell’epidermide, potreste dovervi sottoporre a uno degli interventi qui elencati:
Angioplastica: in quest’intervento il chirurgo inserisce un catetere (tubicino lungo e sottile) nell’arteria bloccata o ostruita. Al suo interno viene inserito un secondo catetere, con una specie di palloncino sgonfio fissato all’estremità che raggiunge la zona colpita. Poi il palloncino viene gonfiato, e va a premere i depositi contro le pareti arteriose. Un tubicino a rete (stent) di solito sarà lasciato nell’arteria per tenerla aperta.
Endoarterectomia: in alcuni casi i depositi devono essere rimossi chirurgicamente dalle pareti dell’arteria ostruita. Se l’intervento viene eseguito sull’arteria del collo (arteria carotide), è detto enoarterectomia carotidea.
Terapia trombolitica: se l’arteria è ostruita da un trombo, il medico può iniettare un farmaco anticoagulante nel tratto colpito per far dissolvere il trombo. Bypass: il chirurgo può creare un bypass, usando un vaso sanguigno prelevato da un’altra zona dell’organismo oppure un tubicino sintetico. In questo modo il sangue riuscirà ad aggirare l’arteria bloccata o ostruita.
I cambiamenti nello stile di vita possono aiutarvi ad arrestare o a rallentare il decorso dell’aterosclerosi:
1. Smettete di fumare. Smettere è il modo migliore per arrestare il progresso dell’aterosclerosi e diminuire il rischio di complicazioni.
2. Fate esercizio fisic. L’esercizio fisico regolare può indurre i muscoli a usare l’ossigeno con maggior efficienza. L’attività fisica può anche migliorare la circolazione e facilitare la creazione di nuovi vasi sanguigni che formano una sorta di bypass naturale intorno alle arterie ostruite (vasi collaterali).
3. Seguite una dieta sana. Una dieta sana per il cuore, composta da frutta, verdura, cereali integrali e povera di grassi saturi, colesterolo e sodio, vi aiuterà a tenere sotto controllo il peso, la pressione, il colesterolo e la glicemia.
4. Dimagrite e mantenete il peso forma. Se siete in sovrappeso, perdere anche solo quattro o cinque chili potrà aiutarvi a diminuire il rischio di ipertensione e ipercolesterolemia, due dei principali fattori di rischio per l’aterosclerosi.
5. Imparate a gestire lo stress. Praticate le tecniche di gestione dello stress, ad esempio il rilassamento e la respirazione profonda.
Le cardiomiopatie sono patologie che colpiscono il muscolo cardiaco, e che sono generalmente associati a inappropriate ipertrofia e/o dilatazione ventricolare, riducendo l’efficienza del cuore, che fatica a pompare il sangue nel resto del corpo.
Sinonimo di cardiomiopatia è miocardiopatia. Esistono diverse modalità di classificazione della cardiomiopatia; quella più generica suddivide la cardiomiopatia in tre tipi: dilatative, ipertrofiche e restrittive.
Cardiomiopatia dilatativa – La cardiomiopatia dilatativa si caratterizza fondamentalmente per la compromissione della funzione di pompa dei ventricoli, dilatazione ventricolare e sintomi di scompenso cardiaco congestizio con estese aree di fibrosi interstiziale e perivascolare con minima quota di necrosi e infiltrazione cellulare, possibile risultato finale di un danno miocardico prodotto da vari fattori tossici, metabolici o infettivi. Esistono anche forme di cardiomiopatie dilatative dovute a malattie neuromuscolari e collagenopatie.
Cardiomiopatia ipertrofica – La cardiomiopatia ipertrofica (talvolta indicata con la sigla HCM, Hypertrophic Cardiomyopathy) è una patologia genetica caratterizzata da un rilevante aumento dello spessore della parete cardiaca. Spesso l’ipertrofia coinvolge l’intero ventricolo sinistro; l’ipertrofia cardiaca non sempre è relativa a una cardiomiopatia ipertrofica; il cuore (o meglio, il ventricolo sinistro) può aumentare di spessore in seguito a patologie, ma anche conseguentemente a un’intensa attività fisica.
Cardiomiopatia restrittiva – Le cardiomiopatie restrittive sono un gruppo eterogeneo di patologie di cui esistono forme primarie, ma anche secondarie. Le varie patologie che rientrano in questo gruppo sono accomunate dal fatto che in tutte è presente un pattern restrittivo; con questa locuzione si fa riferimento al fatto che durante la diastole è presente un ostacolo che impedisce il regolare riempimento del ventricolo; quest’ultimo non è in grado di accogliere correttamente il sangue perché le sue pareti sono rigide e poco distendibili; conseguentemente si registra un aumento della pressione diastolica ventricolare.
DIAGNOSI
La diagnosi di cardiomiopatia si basa su un’accurata visita medica in cui il medico indagherà anche sulla presenza di eventuali problemi cardiologici in famiglia. Al termine della visita il medico potrebbe prescrivere:
– una radiografia del torace
– un elettrocardiogramma
– un ecocardiogramma
– un test da sforzo
– una scintigrafia miocardica
– una risonanza magnetica cardiaca
– esami del sangue
In base ai risultati di questi esami si potrebbe rendere necessaria l’esecuzione di ulteriori esami di secondo livello, quali coronarografia, studio emodinamico, biopsia miocardica.
TRATTAMENTI
Anche le modalità di trattamento delle cardiomiopatie sono variegate e dipendono da vari fattori, dal tipo di cardiomiopatia e dal tipo di disturbo presente. Gli obiettivi sono però sempre ridurre i sintomi, prevenire il peggioramento della situazione e ridurre il rischio di complicazioni.
In caso di cardiomiopatia dilatativa potrebbe essere necessario assumere farmaci (come ACE-inibitori, antagonisti del recettore dell’angiotensina, beta-bloccanti, diuretici e digossina), sottoporsi a interventi chirurgici per l’impianto di particolari pacemaker o defibrillatori, o un trattamento combinato farmaci-intervento. In caso di cardiomiopatia ipertrofica potrebbero essere prescritti beta-bloccanti, calcio-antagonisti o particolari antiaritmici. Se il trattamento farmacologico non dovesse essere sufficiente potrebbe essere necessario un intervento chirurgico correttivo o l’impianto di un pacemaker o di un defibrillatore.
Il trattamento delle cardiomiopatie restrittive è mirato essenzialmente al miglioramento dei sintomi. Il medico può consigliare di limitare il consumo di sale e di tenere quotidianamente sotto controllo il peso. Potrebbero essere prescritti diuretici o farmaci per ridurre la pressione e tenere sotto controllo il battito cardiaco. Nel caso in cui fosse possibile identificare la causa della cardiomiopatia saranno prescritti anche trattamenti specifici contro la problematica sottostante.
Nei casi più gravi in cui la malattia progredisce nonostante i trattamenti potrebbe essere necessario un trapianto o l’impianto di un dispositivo di assistenza ventricolare (VAD).
Cos’è l’infarto del miocardio?
L’infarto è la necrosi di un tessuto o di un organo che non ricevono un adeguato apporto di sangue e ossigeno dalla circolazione arteriosa. Con il termine di infarto miocardico si intende la necrosi di una parte del muscolo cardiaco a seguito dell’ostruzione di una delle coronarie, arterie deputate alla sua irrorazione.
Come si manifesta?
L’infarto miocardico si può manifestare a riposo, dopo un’emozione intensa, durante uno sforzo fisico rilevante o quando lo sforzo è già terminato. Il suo esordio clinico è brusco ed è in prevalenza caratterizzato da sintomi tipici, che sono quindi facilmente identificabili nella maggior parte dei casi. E’ una malattia associata ad elevata mortalità se non adeguatamente trattata, che richiede l’attivazione del sistema di soccorso urgente sul territorio (118) e l’arrivo del paziente presso un ospedale dotato di tutte le potenzialità di trattamento della malattia, nel più breve tempo possibile. Le complicanze dell’infarto in fase acuta possono essere:
– Lo shock, con grave prostrazione del paziente, bassa pressione arteriosa, tachicardia ed estremità fredde e umide a causa della vasta estensione dell’area di necrosi
– L’edema polmonare acuto, con grave mancanza di respiro a riposo
– Le aritmie, alcune delle quali potenzialmente fatali
– L’ischemia di altri organi, per la scarsa capacità del cuore di svolgere la propria azione di pompa vitale per la circolazione del sangue.
Quali sono le cause dell’infarto del miocardio?
L’infarto miocardico è prodotto dall’occlusione parziale o totale di un’arteria coronarica. Questo avviene per la formazione di un coagulo (o trombo) su una delle lesioni aterosclerotiche che possono essere presenti sulla parete vascolare e che sono a stretto contatto con il lume interno. Non è ad oggi nota ne’ la causa dell’aterosclerosi ne’ della formazione improvvisa di un coagulo sulla placca coronarica: sono state avanzate diverse ipotesi tra le quali l’infiammazione dei vasi di varia natura e l’infezione da parte di germi molto diffusi nei paesi occidentali.
In rari casi l’infarto è la conseguenza di una malformazione coronarica (con restringimento del lume e formazione comunque di un trombo) o dello scollamento tra i foglietti della parete coronarica (dissezione) che porta quello interno a sporgere nel lume restringendolo in modo rilevante e predisponendolo alla chiusura totale (anche in questo caso per trombo o per compressione meccanica). Sono state descritte negli ultimi anni forme di infarto cardiaco che si manifestano in assenza di malattia coronarica e con un interessamento prevalente dell’apice del cuore.
La sindrome di Takotsubo è un infarto miocardico dell’apice che esordisce dopo un intenso stress emotivo e che colpisce prevalentemente le donne. E’ caratterizzata da una fase iniziale in cui la porzione di muscolo cardiaco che non si contrae può essere abbastanza estesa, coinvolgendo l’apice e i segmenti intermedi, con tendenziale buon recupero della contrattilità a distanza. Le coronarie sono indenni da restringimenti o da occlusioni. Il cuore, osservato all’ecocardiogramma, tende ad assumere un aspetto che ricorda il cestello utilizzato dai pescatori in Giappone, da cui il nome della sindrome che è stato proposto dai ricercatori giapponesi che l’hanno descritta per primi.
L’infarto resta anche oggi una malattia mortale. La mortalità è tanto maggiore quanto più tardivo è l’accesso del paziente con infarto miocardico acuto ad un ospedale nel quale possa essere trattato adeguatamente. E’ opportuno ricorrere al 118 in tutti i casi in cui si sospetti la presenza di un infarto cardiaco per iniziare al più presto il monitoraggio del paziente, trattare tempestivamente le complicanze fatali che possono verificarsi nelle prime ore (aritmie gravi come la fibrillazione ventricolare) e cominciare a somministrare i primi farmaci efficaci sul coagulo o trombo coronarico.
Quali sono i sintomi?
I sintomi più frequenti sono il dolore al petto, la sudorazione fredda profusa, uno stato di malessere profondo, la nausea e il vomito. Il dolore, definito anche precordiale (prossimo alla sede intratoracica del cuore) o retrosternale (il paziente lo attribuisce allo spazio toracico che sta dietro allo sterno) si può irradiare ai vasi del collo e alla gola, alla mandibola (soprattutto ramo sinistro), alla porzione di colonna vertebrale che sta fra le due scapole, agli arti superiori (il sinistro e’ coinvolto più spesso del destro) e allo stomaco.
Spesso il dolore al petto compare per brevi intervalli temporali e si risolve spontaneamente, prima di manifestarsi in modo più duraturo, con il corollario dei sintomi già descritto. Quando il dolore al petto, spontaneo o da sforzo, si manifesta per una durata massima di 30 minuti si parla di angina pectoris: una condizione di ischemia del cuore che non arriva ad essere così prolungata da provocare necrosi. Ci sono pazienti che lamentano l’angina pectoris da ore o giorni a mesi o anni prima di un vero e proprio infarto.
L’infarto miocardico è un’esperienza soggettiva: non tutte le persone che ne sono colpite descrivono la presenza degli stessi sintomi. Normalmente, un episodio acuto dura circa 30-40 minuti, ma l’intensità dei sintomi stessi può variare notevolmente. In alcuni casi il paziente riferisce di avvertire una sensazione di morte imminente, che lo porta a cercare il soccorso medico. Possono essere riportati anche stordimento e vertigini, mancanza di respiro in assenza di dolore toracico (soprattutto nei pazienti diabetici), svenimento con perdita di coscienza
Molte persone confondono l’infarto miocardico con l’arresto cardiaco. Sebbene l’infarto del miocardio possa causare l’arresto cardiaco, non ne è l’unica causa ed un infarto miocardico non determina necessariamente l’arresto cardiaco.
Quali sono i fattori di rischio? I fattori di rischio per l’aterosclerosi e l’infarto sono distinti in fattori modificabili e fattori non modificabili.
Fattori non modificabili:
– Età: il rischio di infarto, come per quasi tutte le patologie cardiovascolari, aumenta con l’avanzare dell’età.
– Sesso: l’aterosclerosi e l’infarto sono più comuni negli uomini rispetto alle donne per le decadi dell’eta’ giovanile e matura. Dopo la menopausa femminile il rischio di aterosclerosi e infarto e’ analogo negli uomini e nelle donne.
– Familiarità: chi presenta nella propria storia familiare casi di malattia cardiovascolare acuta è maggiormente a rischio di infarto, soprattutto se la patologia cardiovascolare del congiunto si e’ manifestata in età giovanile
Fattori modificabili:
– Stile di vita: sedentarietà e fumo di tabacco sono fra i più importanti fattori di rischio cardiovascolare. Smettere di fumare e condurre una vita attiva, facendo regolarmente almeno 20-30 minuti di attività fisica al giorno, è il metodo migliore per prevenire i problemi cardiovascolari e per tutelare la propria salute.
– Alimentazione: Una dieta troppo ricca di calorie e grassi contribuisce ad aumentare il livello di colesterolo e di altri grassi (lipidi) nel sangue, rendendo molto più probabili l’aterosclerosi e l’infarto. Un’alimentazione sana ed equilibrata ha una grande valenza in termini di prevenzione delle malattie cardiovascolari.
– Ipertensione arteriosa: la “pressione alta” o ipertensione arteriosa può avere varie cause e interessa una larga fetta della popolazione di età superiore ai 50 anni. Si associa ad una aumentata probabilità di sviluppare l’aterosclerosi e le sue complicanze, come l’infarto cardiaco o cerebrale. Condiziona un aumento del lavoro cardiaco che si traduce nel tempo con il progressivo malfunzionamento del cuore e con la comparsa di scompenso cardiocircolatorio.
– Diabete: l’eccesso di glucosio nel sangue danneggia le arterie e favorisce l’ aterosclerosi, l’infarto miocardico e cerebrale e il danno di organi importanti come il rene, con la comparsa di insufficienza renale, a sua volta associata ad aumentato rischio cardiovascolare.
– Droghe: l’uso di droghe può aumentare notevolmente la possibilità di infarto miocardico ed abbassare l’età media in cui si manifesta.
DIAGNOSI
L’infarto viene generalmente diagnosticato a partire dai sintomi riferiti dal paziente. Nel caso di sospetto infarto del miocardio, è possibile confermare l’ipotesi diagnostica mediante l’esecuzione di un elettrocardiogramma.
Attraverso gli esami del sangue, è possibile diagnosticare un infarto rilevando la presenza di alcune sostanze (gli enzimi cardiaci), che vengono rilasciate nel sangue dalle cellule del muscolo cardiaco che sono andate incontro a morte e permangono in circolo fino ad un paio di settimane dopo l’evento.
È possibile verificare la diagnosi di infarto del miocardio e valutare i danni causati dallo stesso attraverso un ecocardiogramma con Color Doppler. La malattia delle coronarie viene valutata mediante coronarografia con impiego del mezzo di contrasto. Dopo un infarto si può valutare indirettamente il grado di efficienza della circolazione coronarica e l’eventuale comparsa di ischemia mediante Elettrocardiogramma da sforzo, Ecocardiogramma da sforzo o da stress farmacologico, Scintigrafia miocardica da sforzo o da stress farmacologico e Risonanza Magnetica da stress farmacologico.
TERAPIA
Il primo obiettivo del trattamento dell’infarto miocardico, all’esordio della malattia, è quello di promuovere la riapertura della coronaria che si è occlusa. In questa fase il tempo risparmiato tra l’arrivo del paziente e la riapertura del vaso si traduce in un guadagno di muscolo cardiaco prima che venga danneggiato in modo irreversibile.
Il trattamento prevede la disostruzione del lume della coronaria mediante l’introduzione di un catetere dotato di palloncino gonfiabile all’apice, capace di passare attraverso il coagulo presente nel punto di massimo restringimento della coronaria stessa e di schiacciarne le componenti sulle pareti (angioplastica coronarica), e il posizionamento di una protesi a rete all’interno del vaso (stent) che contribuisce a mantenerlo aperto dopo la disostruzione.
In mancanza di angioplastica o della possibilità di raggiungere le coronarie con il catetere esistono anche farmaci che sono in grado di dissolvere il trombo dopo essere stati somministrati per via endovenosa (trombolitici) benché’ non utilizzabili in tutti i pazienti, in quanto associati alla possibilità di produrre emorragie anche gravi.
Altri farmaci, tra cui gli anticoagulanti, gli antiaggreganti, i betabloccanti, gli ACE inibitori e le statine, sono quasi sempre presenti nel corredo farmacologico del paziente colpito da infarto miocardico. Il loro uso va valutato in base al profilo di rischio emorragico del paziente, alla tolleranza individuale e alle controindicazioni che variano da soggetto a soggetto.
In tutti i casi in cui si sia rilevata una malattia coronarica grave o estesa e che non siano trattabili con l’angioplastica coronarica e lo stent si può ricorrere all’intervento di bypass coronarico che consiste nel creare chirurgicamente un canale di comunicazione fra l’aorta e la coronaria ristretta o ostruita a valle della lesione, mediante l’utilizzo di altre arterie (arteria mammaria interna) o vene (safena rimossa dagli arti inferiori). Normalmente, questo tipo di approccio non viene utilizzato in emergenza a meno che non vi sia assoluta necessità.
PREVENZIONE
La terapia prescritta alla dimissione prevede sempre l’Aspirina spesso associata ad un altro antiaggregante, che andrà mantenuto per un tempo variabile da un mese ad un anno, il betabloccante, l’ACE-inibitore e la statina. Intolleranze individuali o la controindicazione assoluta ad uno di questi preparati puo’ essere la causa della loro mancata prescrizione.
Questa terapia e’ spesso affiancata da altri preparati, secondo le caratteristiche individuali dei soggetti e le malattie associate. Lo scopo della terapia e’ quello di rallentare la progressione dell’aterosclerosi e di prevenire un secondo episodio infartuale, le sue temibili complicanze come la morte o l’ictus, e ridurre l’evoluzione verso un malfunzionamento del cuore e della circolazione (scompenso).
Ancora una volta la modificazione dello stile di vita può contribuire enormemente alla prevenzione. Viene pertanto raccomandato di:
Ridurre il proprio peso corporeo fino al raggiungimento di un valore nella norma per età e sesso. La valutazione del peso corporeo viene fatta non solo in assoluto ma soprattutto come indice di massa corporea o BMI, unità di volume nella quale si tiene conto di peso e altezza, i cui valori normali sono stati condivisi dalla comunità scientifica internazionale.
Smettere di fumare, facendosi aiutare anche da centri specializzati ad assistere pazienti che non sono in grado di sostenere questa decisione da soli.
Praticare attività fisica regolarmente, con intensità variabile a seconda di età e condizioni generali di salute. È a questo proposito importante discutere con il proprio medico in merito ad un programma di allenamento adatto alle proprie caratteristiche.
Evitare cibi grassi, eccessivamente conditi o fritti. Non eccedere con alcool (un bicchiere di vino al pasto al giorno) e dolci. Privilegiare i grassi vegetali e i pasti a base di verdure, fibre, carni magre e pesce.
Limitare, per quanto possibile, le situazioni che possono essere fonte di stress, specialmente se queste tendono a protrarsi nel tempo.
Quali tecniche si usano per la riabilitazione?
Dopo un infarto miocardico può essere indicato un periodo di riabilitazione cardiologica. La stessa può essere fatta in regime di degenza o ambulatorialmente, secondo la gravità dell’infarto stesso, la capacità di recuperare la propria attività fisica da parte del paziente e le eventuali malattie extracardiache associate. Le principali finalità della riabilitazione sono quelle di una graduale ripresa della capacità di esercizio individuale, di un assestamento della terapia che si avvicini il più possibile a quanto sarà assunto dal paziente nella vita extra-ospedaliera e, infine, di modificazione dello stile di vita. Per le diverse modalità di esecuzione della riabilitazione e relativi programmi si rimanda alla sezione specifica.
Con il termine “ipertensione polmonare” si intende un aumento della pressione del sangue all’interno dei vasi arteriosi del polmone dovuta alla distruzione, all’ispessimento parietale, al restringimento o all’ostruzione dei vasi stessi.
La pressione polmonare media è normalmente di circa 14 mmHg a riposo: si inizia a parlare di ipertensione polmonare quando la pressione polmonare media supera i 25 mmHg. Questa condizione sottopone il ventricolo destro (deputato a pompare sangue verso i polmoni) a un sovraccarico di pressione e volume, che può condurlo all’insufficienza contrattile e allo scompenso.
Se non opportunamente trattata, l’ipertensione polmonare può degenerare, causando ulteriore restringimento dei vasi sanguigni e aggravando i sintomi tipici della patologia.
L’ipertensione polmonare può essere di due tipi:
1. Primitiva o idiopatica: è una condizione rara che interessa principalmente il sesso femminile. Insorge più frequentemente tra i 30 e i 50 anni. Nonostante la causa dell’ipertensione polmonare primitiva sia ancora sconosciuta, la patologia può risultare associata a particolari mutazioni genetiche.
2. Acquisita o secondaria: è molto più comune della forma primitiva.
La patologia nella forma secondaria è stata osservata in associazione a:
– Malattie polmonari come l’enfisema, la fibrosi polmonare, la broncopneumopatia cronica ostruttiva e la patologia respiratoria legata ai disordini del sonno (apnee notturne).
– Embolia polmonare e ipertensione polmonare trombo embolica cronica.
– Malattie autoimmuni del tessuto connettivo, come la sclerodermia o il lupus eritematoso sistemico.
– Difetti cardiaci congeniti o malattie del cuore sinistro (valvulopatie, grave insufficienza cardiaca).
– Anemia emolitica cronica (anemia falciforme).
– Malattie croniche del fegato con ipertensione portale.
– Infezioni da HIV.
– Assunzione di alcuni farmaci (anoressizzanti, inibitori del reuptake della serotonina) o di sostanze stimolanti (cocaina, anfetamine).
La sintomatologia dell’ipertensione polmonare può comprendere:
– Respirazione difficoltosa, soprattutto durante sforzi fisici.
– Stanchezza o affaticabilità.
– Svenimenti.
Nelle fasi avanzate della patologia la respirazione difficoltosa può insorgere anche a riposo ed è possibile che insorgano dolori al petto tipici dell’angina pectoris (segno di sofferenza cardiaca) ed edema (ristagno di liquidi) agli arti inferiori.
DIAGNOSI
La tecnica non invasiva migliore per approcciare la diagnosi di ipertensione polmonare è l’ecocardiografia transtoracica. Un ecocardiogramma permette una visualizzazione molto accurata del cuore e consente di documentare le alterazioni morfologiche e strutturali delle camere cardiache destre che si sviluppano come conseguenza dell’aumento dei valori di pressione polmonare. La metodica Doppler consente inoltre di effettuare una stima indiretta della pressione sistolica (cioè la pressione massima) nell’arteria polmonare.
Per effettuare una diagnosi definitiva è però necessario sottoporsi al cateterismo cardiaco: attraverso questo esame è infatti possibile misurare in modo diretto alcuni parametri, la cui alterazione si correla con una prognosi sfavorevole della malattia: la pressione nell’atrio destro del cuore, la pressione polmonare media, la portata cardiaca.
Attraverso il cateterismo cardiaco è inoltre possibile eseguire il test di vaso-reattività polmonare: mediante la somministrazione di farmaci che inducono la dilatazione dei vasi sanguigni polmonari è possibile identificare i pazienti che presentano una residua capacità di vasodilatazione polmonare e che potrebbero trarre giovamento dalle terapie farmacologiche.
Possono inoltre risultare utili:
– Spirometria: il paziente respira tramite un boccaglio e l’apparecchio collegato al boccaglio misura vari aspetti della respirazione, per riscontrare eventuali anomalie che rimandano a patologie polmonari.
– Angio-tomografia computerizzata del torace e angiopneumografia: sono esami radiologici che permettono di visualizzare il decorso delle arterie polmonari e la loro eventuale occlusione.
– Scintigrafia polmonare perfusoria: attraverso questo esame si fa una “fotografia” della circolazione sanguigna nei polmoni. In presenza di ostruzioni si rilevano difetti di perfusione.
– Emogasanalisi (EGA): è un prelievo di sangue arterioso per misurare la quantità di ossigeno e di anidride carbonica in esso presenti.
– Test del cammino e test da sforzo cardiopolmonare: per valutare la tolleranza cardiaca allo sforzo e la presenza di eventuale insufficienza respiratoria.
TRATTAMENTI
Il trattamento varia a seconda che si soffra delle forma primitiva o secondaria della malattia.
Nel caso di ipertensione polmonare secondaria, la terapia si basa principalmente sui trattamenti volti alla cura della condizione che ha scatenato la patologia. Il trattamento dell’ipertensione polmonare primaria si basa sulla somministrazione di farmaci che sono in grado di vasodilatare il circolo polmonare come calcio antagonisti, prostacicline, farmaci antiendotelina e inibitori della fosfodiesterasi tipo 5 (sildenafil e simili).
È indicato in molti casi l’impiego di anticoagulanti orali, che possono essere associati a diuretici e ad altre terapie dell’insufficienza cardiaca, in caso di scompenso di circolo.
La miocardite è un’infiammazione del muscolo cardiaco che può comportare insufficienza cardiaca, irregolarità del ritmo cardiaco da infiammazione e / o cicatrici del sistema elettrico del cuore.
La miocardite può essere causata da una varietà di infezioni e patologie, quali:
– virus
– sarcoidosi
– malattie immunitarie: come il lupus sistemico, ecc
Quando il cuore viene colpito da un’infezione l’agente infettivo danneggia o distrugge le cellule muscolari delle sue pareti; nel contempo le cellule del sistema immunitario, deputate a combatterla, possono a loro volta danneggiare il muscolo cardiaco, contribuendo in modo rilevante al quadro globale.
In questa rara circostanza le pareti del cuore si ispessiscono e si indeboliscono, dando luogo ai sintomi tipici di uno scompenso cardiaco.
La prognosi dipende dalla causa alla base dell’infezione e dallo stato di salute generale di chi ne è colpito: se in alcuni casi si può guarire completamente, in altri lo scompenso può cronicizzare.
Fra le altre possibili complicazioni sono inclusi lo sviluppo di cardiomiopatie e l’estensione dell’infiammazione al pericardio con conseguente pericardite.
Il sintomo più frequente di miocardite è il dolore al petto. Quando la miocardite è più grave, porta all’indebolimento del muscolo cardiaco. La miocardite può causare insufficienza cardiaca (con sintomi di dispnea, affaticamento, accumulo di liquido nei polmoni, ecc. ), così come le irregolarità del ritmo cardiaco da infiammazione e / o cicatrici del sistema elettrico del cuore.
DIAGNOSI
La miocardite viene diagnosticata rilevando segni di irritazione del muscolo cardiaco. Per diagnosticare una miocardite potrebbero essere prescritti:
– esami del sangue, inclusi le emocolture e altri esami infettivologici
– RX del torace
– ECG
– ecocardiogramma
– cateterismo cardiaco con biopsia endomiocardica
TRATTAMENTI
Il trattamento più adatto in caso di miocardite dipende dalla causa scatenante e può includere:
– l’assunzione di antibiotici
– l’assunzione di antinfiammatori
Qualora la compromissione cardiaca fosse molto rilevante è necessario ricoverare il paziente in ambiente ospedaliero e somministrare la terapia dello scompenso cardiaco. Nelle forme più gravi si impongono la degenza in terapia intensiva e i trattamenti farmacologici e meccanici del caso (inclusi il posizionamento di un pace-maker temporaneo o definitivo e l’impiego di un defibrillatore).
Tranne che nella sarcoidosi sistemica, dove la miocardite può rispondere ai corticosteroidi, i farmaci non si sono dimostrati efficaci per il trattamento della miocardite attiva.
I trattamenti mirano soprattutto ad alleviare l’insufficienza cardiaca (restrizione di sale, pillole d’acqua, gli ACE-inibitori, beta bloccanti, ecc. ). Su può avviare un trattamento anche con la magnetoterapia.
Il soffio al cuore è un rumore anomalo che il medico può sentire auscultando il battito cardiaco.
I soffi possono essere molto deboli o molto intensi, a volte invece si presentano sotto forma di fischi o sibili.
In condizioni normali il battito del cuore produce un rumore riconoscibile, dovuto alla chiusura delle valvole cardiache quando il sangue lo attraversa. I medici possono ascoltare il battito del cuore e gli eventuali soffi usando lo stetoscopio.
Esistono due tipi di soffio al cuore:
– innocente (benigno),
– anomalo.
I soffi innocenti non sono causati da problemi cardiaci e sono piuttosto comuni tra i bambini sani; a molti bambini, a un certo punto, viene infatti diagnosticato un soffio al cuore.
Il soffio “innocente” non si associa ad alcuna sintomatologia cardiologica per definizione.
I pazienti che hanno un soffio anomalo presentano invece i sintomi di problemi cardiaci. La maggior parte dei soffi anomali nei bambini sono causati da malformazioni cardiache congenite, cioè da problemi di forma e di struttura del cuore presenti già dalla nascita.
Negli adulti, invece, i soffi anomali sono causati nella maggior parte dei casi da disturbi a carico delle valvole cardiache, che si sviluppano come conseguenza di altre malattie, infezioni o semplicemente dell’invecchiamento.
Anche i soffi cardiaci prodotti da malattie del cuore possono peraltro non accompagnarsi a sintomi specifici, benché sia più frequente che, secondo la gravità della patologia, siano rilevati in pazienti che si presentano con cianosi della cute (soprattutto a livello di dita e labbra), gonfiori agli arti inferiori o aumento improvviso di peso, fiato corto, tosse cronica, fegato ingrossato, dilatazione e turgore delle vene del collo, dolore al petto, vertigini, svenimenti e, nei bambini, scarso appetito e problemi di crescita.
Il soffio al cuore non è una malattia e nella maggior parte dei casi non è pericoloso: quelli di tipo innocente non causano particolari sintomi e se si ha un soffio al cuore non è necessario limitare l’attività fisica né prendere altre particolari precauzioni. Il soffio innocente può continuare ad esistere per tutta la vita, senza richiedere alcuna terapia.
La prognosi e la terapia dei soffi anomali dipendono dal tipo e dalla gravità del problema cardiaco che li provoca.
DIAGNOSI
In genere il soffio cardiaco viene scoperto durante una visita medica, nel corso della quale il medico ausculta il cuore con lo stetoscopio appoggiato sul torace.
Per stabilire la gravità del problema il medico valuterà l’intensità del soffio, la sua localizzazione rispetto alle valvole cardiache (ogni valvola viene meglio “auscultata” in alcune posizioni specifiche sul torace), il suo tono, il momento di comparsa nel ciclo cardiaco, la durata ed eventuali fattori in grado di modificarlo come la respirazione del paziente o l’attività fisica.
Per ipotizzare una causa il medico indagherà anche su eventuali patologie e disturbi cardiaci presenti in famiglia.
Nel caso in cui si sospetti un soffio patologico potrebbero essere prescritti:
– Radiografia (Rx) torace
– Elettrocardiogramma (ECG)
– Ecocardiogramma transtoracico o transesofageo
– TAC cuore
– Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) cuore
– Cateterismo cardiaco
TRATTAMENTO
In genere il paziente con un soffio cardiaco “innocente” non richiede nessun trattamento specifico. Qualora il soffio fosse associato a una malattia extracardiaca, come l’ipertiroidismo o l’anemia, scomparirà curando la patologia sottostante.
A volte non è necessario alcun trattamento anche in caso di soffio patologico e il medico raccomanderà solo controlli regolari per monitorare la situazione.
Secondo la gravità della malattia associata al soffio potrà essere indicato:
l’impiego di vari farmaci, che spaziano dagli antiaritmici agli anticoagulanti ai medicinali per ridurre la pressione (diuretici, ACE-inibitori, betabloccanti). Interventi chirurgici veri e propri o interventi percutanei effettuati mediante l’inserzione di cateteri nei vasi sanguigni e posizionamento degli stessi all’interno delle strutture cardiache, per eliminare o correggere anomalie specifiche.
La stenosi aortica è una riduzione della capacità di apertura della valvola aortica. La stenosi aortica rappresenta un’ostruzione alla fisiologica fuoriuscita del sangue tra il ventricolo sinistro e l’aorta nel corso della sistole, ossia durante la contrazione del cuore.
La stenosi aortica genera un sovraccarico di pressione dell’emissione del sangue sul ventricolo, che per compensare e adattarsi a questa situazione, ispessisce le proprie pareti (ipertrofia concentrica), ma comportando tuttavia un incremento di fatica per il cuore.
La stenosi aortica insorge in genere in età matura, tra i 60 e 70 anni, ma l’esordio può essere precedente nei pazienti con valvola bicuspide. L’innalzamento dell’età media della popolazione concorre all’aumento della frequenza della malattia.
In genere la stenosi aortica è dovuta al naturale invecchiamento dell’organismo e alla calcificazione della valvola, delle cuspidi e dell’anello valvolare. La causa può essere anche riconducibile a malformazioni congenite o origini reumatiche.
Una stenosi moderata non si presenta con sintomi particolari. Nei casi più importanti (stenosi aortica severa) invece è possibile si arrivi a un’insufficienza cardiaca con: affanno sotto sforzo, presenza di edemi (ai polmoni o agli arti inferiori), dolore al torace, perdita di coscienza (sincope o pre-sincope con vertigini, sensazione di svenimento o stordimento) in seguito a sforzo. Questi sintomi si possono verificare anche a riposo
DIAGNOSI
L’ecocardiografia è la tecnica diagnostica migliore per effettuare una diagnosi di stenosi aortica. Mediante un esame ecocardiografico con tecnologia Doppler è possibile confermare la diagnosi, valutare la gravità della situazione e le ripercussioni sul cuore.
Grazie all’ecocardiografia è possibile:
– Tracciare l’anatomia valvolare.
– Stimare le calcificazioni valvolari.
– Misurare l’ampiezza di apertura residua della valvola aortica.
– Valutare la funzionalità cuore ed escludere o confermare la presenza di un’ipertrofia delle pareti.
Il Doppler consente invece di:
– Misurare la velocità del sangue a livello dell’orifizio aortico; un dato importante per accertare un’eventuale differenza di pressione tra il ventricolo sinistro e l’aorta.
– Valutare la superficie dell’orifizio valvolare.
La tromboflebite è un’infiammazione di una o più vene associata a un rigonfiamento causato da un coagulo di sangue, colpisce più comunemente le vene delle gambe. I rigonfiamenti associati a coaguli di sangue riguardano più spesso le vene che scorrono nelle gambe, ma in alcuni casi possono interessare le braccia o il collo. Quando la vena interessata è in superficie si parla di tromboflebite superficiale, mentre se è più vicina ai muscoli si tratta di trombosi venosa profonda. La presenza di coaguli nelle vene più profonde aumenta il rischio di formazione di emboli, mentre è raro che una tromboflebite superficiale dia luogo a serie complicazioni.
Periodi di inattività prolungati, come un riposo forzato a letto o molte ore in posizione seduta come può accadere durante un lungo viaggio in aereo, possono causare la tromboflebite. Il rischio di sviluppare questa condizione è particolarmente alto in chi soffre di disturbi che aumentano la probabilità di formazione di coaguli di sangue (in particolare di difetti nella coagulazione del sangue) e in chi rimane a lungo ricoverato in ospedale per un intervento chirurgico o una malattia importanti.
DIAGNOSI
La tromboflebite si manifesta con gonfiori e dolore nella parte interessata, calore e indolenzimento lungo la vena coinvolta e talvolta arrossamenti della cute. Per prevenire la formazione dei coaguli di sangue alla base della tromboflebite è importante mantenersi attivi.
Durante i viaggi aerei è consigliabile alzarsi di tanto in tanto, così come in caso di lunghi viaggi in macchina è consigliabile fare delle soste e camminare un po’.
TRATTAMENTI
Nel caso in cui si sia obbligati a stare seduti a lungo è bene cercare di muovere spesso le gambe, anche premendo la pianta del piede sul pavimento, evitare di indossare capi d’abbigliamento che stringano la vita e bere molta acqua.
Se c’è il rischio di trombosi venosa profonda è utile utilizzare calze contenitive e seguire le indicazioni fornite dal proprio medico.
La trombosi venosa profonda è caratterizzata dalla formazione di un coagulo di sangue (o trombo) in una o più vene localizzate in profondità. In genere a essere coinvolti sono i vasi sanguigni presenti nelle gambe.
Che cos’è la trombosi venosa profonda?
La trombosi venosa profonda è una condizione seria: i coaguli di sangue presenti nelle vene profonde possono infatti staccarsi ed essere trasportati fino ai polmoni, dove bloccano il flusso sanguigno causando la cosiddetta embolia polmonare. Diversi fattori possono aumentare il rischio di sviluppare una trombosi venosa profonda: rimanere seduti o sdraiati a lungo (ad esempio durante un viaggio aereo o un ricovero in ospedale), malattie ereditarie che compromettono la corretta coagulazione del sangue, traumi o interventi chirurgici, il sovrappeso e l’obesità, il fumo, la gravidanza, l’assunzione della pillola anticoncezionale o della terapia ormonale sostituiva, alcune forme di cancro, un arresto cardiaco, essere portatori di pacemaker, cateteri inseriti in una vena e casi di trombosi venosa profonda in famiglia.
DIAGNOSI
La trombosi venosa profonda è causata dalla formazione di un coagulo di sangue in una o più vene localizzate in profondità, vicino ai muscoli. La formazione di questo coagulo può essere associata ad alterazioni della parete vascolare o del flusso del sangue o a un aumento della coagulazione del sangue.
La trombosi venosa profonda è spesso asintomatica; in altri casi può manifestarsi con gonfiore e dolore alla gamba, alla caviglia e al piede, crampi ai polpacci, riscaldamento dell’area interessata e cambiamenti del colore della pelle (che può risultare pallida, arrossata o cianotica).
TRATTAMENTI
Per prevenire la trombosi venosa profonda è bene seguire le indicazioni del proprio medico che possono riguardare l’eventuale assunzione di farmaci o l’adozione di calze contenitive. È necessario evitare di periodi di immobilità prolungata; se si è costretti a stare seduti a lungo è importante alzarsi di tanto in tanto o muovere le gambe, anche premendo i piedi sul pavimento.
Mantenere il peso forma, non fumare e tenere sotto controllo la pressione aiuta a ridurre i rischi.
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