Gli adenomi ipofisari sono lesioni benigne che occupano spazio all’interno della sella turcica e prendono origine dalla adenoipofisi. Sono le lesioni più comuni nella regione sellare e rappresentano il 10-15% dei tumori intra-cranici. Gli adenomi ipofisari possono essere presenti come reperto incidentale alla risonanza magnetica nucleare (RMN) encefalo eseguita per altre ragioni (presente sino al 20% nei soggetti sani senza problemi di funzionalità ipofisaria). Non esistono differenze di incidenza della malattia per sesso ed età.
Attualmente gli adenomi ipofisari si distinguono in base a tre criteri:
In base alle dimensioni si distinguono in: microadenomi (inferiori ad 1 cm di diametro), macroadenomi (superiori ad 1 cm), adenomi giganti (maggiori di 3 cm).
In base alla localizzazione si distinguono in intrasellari ed extra-sellari.
In base alle caratteristiche secretorie, in adenomi clinicamente non funzionanti in cui le cellule tumorali non producono sostanze ormonalmente attive, e adenomi secernenti in cui l’ipersecrezioni ormonale causa sindromi cliniche tipiche:
PRL (prolattina) secernente: amenorrea e galattorrea nella donna, impotenza nel maschio.
GH (ormone della crescita) secernente: acromegalia/gigantismo.
ACTH (adrenocorticotropo) scernente: ipercortisolismo, Malattia di Cushing.
TSH (tireotropo) secernente: ipertiroidismo.
DIAGNOSI
Gli adenomi ipofisari devono essere differenziati da altre lesioni della regione ipotalamo-ipofisaria e dai casi di iperplasia ipofisaria che si osservano anche in condizioni fisiologiche come la pubertà, la gravidanza e l’allattamento.
La diagnosi va a ricercare:
sintomi clinici di ipersecrezione ormonale e dosaggi ormonali di laboratorio basali o dopo stimoli specifici;
segni e sintomi di massa quali iposecrezione ormonale da compressione della ipofisi sana, sintomi neuro-oftalmologici come riduzione della acuità visiva o del campo visivo, cefalea, diplopia (visione doppia) e ptosi palpebrale (per estensione laterale dell’adenoma);
sintomi endocrini tra cui l’ipogonadismo è il più frequente.
Lo specialista potrà richiedere l’esecuzione di esami strumentali quali:
risonanza magnetica (RMN) della ghiandola ipofisaria con o senza mezzo di contrasto (gadolinio)
esame del Campo visivo e Test di Hess-Lancaster con il quale viene valutata la presenza di diplopia, quando siano presenti anomalie della motilità degli occhi.
TRATTAMENTO
Trattamento Medico
La terapia medica rappresenta la prima scelta per la cura dell’adenoma ipofisario in caso di prolattinomi, dove si utilizzano con successo farmaci dopaminergici (Cabergolina, Bromocriptina …). Negli altri adenomi la terapia medica è una terapia di seconda scelta. Vengono utilizzati farmaci analoghi della somatostatina in caso di adenoma GH e TSH secernente. Negli adenomi GH secernenti resistenti si utilizza un antagonista del recettore per il GH (pegvisomant).In caso di adenoma ACTH secernente si utilizza un nuovo analogo della somatostatina (pasireotide) o farmaci che agiscono a livello della ghiandola surrenalica riducendo la secrezione ormonale.
Trattamento Chirurgico
La terapia chirurgica è indicata in tutti gli adenomi con esclusione dei PRL secernenti, sia microadenomi che macroadenomi. L’intervento avviene in genere per via transnasosfenoidale (TNS) con due metodologie distinte: TNS metodo microscopico o TNS metodo endoscopico. Solo raramente in casi particolarmente invasivi l’intervento utilizza la chirurgia trans cranica (TC).
Trattamento Radioterapico
Il trattamento radioterapico va riservato solo ai casi di adenoma ipofisario con dimostrata ricrescita tumorale del residuo post chirurgico e/o in quei pazienti con elevato rischio operatorio in caso di re-intervento.
La terapia radiante può essere stereotassica frazionata o radiochirurgia (gamma Knife). In genere possono essere necessari alcuni anni perchè venga ridotta la secrezione ormonale.
Terapia Ormonale Sostitutiva
Può essere indicata una terapia ormonale sostitutiva in quei pazienti con adenoma invasivo e destruente l’ipofisi sana e in paziente sottoposti ad intervento chirurgico che abbia danneggiato la porzione di ipofisi o neuroipofisi sana.
In molti casi l’encefalite viene confusa con una semplice influenza e per questo non viene nemmeno diagnosticata. Anche se chiunque può sviluppare un’infiammazione al cervello, alcune persone sono più a rischio. In particolare, la probabilità di avere a che fare con un’encefalite aumenta negli anziani ed è maggiore in chi ha un sistema immunitario debole. La forma associata all’Herpes simplex è invece più comune tra i 20 e i 40 anni. Nella maggior parte dei casi le infezioni lievi vengono sconfitte in poche settimane e senza lasciare conseguenze. Nei casi più gravi, invece, la situazione può degenerare in un arresto respiratorio, nel coma e, infine, portare al decesso. In molti casi la causa dell’encefalite rimane sconosciuta. Si sa, però, che a scatenare l’infiammazione sono soprattutto dei virus (come l’Herpes simplex, il virus di Epstein-Barr e quello della varicella, virus trasmessi dal morso di zanzare o zecche, enterovirus, il virus della rabbia e quello del morbillo), ma anche batteri, funghi e parassiti possono scatenare l’encefalite. Quando l’infezione riguarda direttamente il cervello di parla di encefalite primaria. Se, invece, l’encefalite è la conseguenza di un’infezione in un’altra regione del corpo si parla di encefalite secondaria.
Fra i possibili sintomi dell’encefalite sono inclusi mal di testa, febbre, dolori muscolari e articolari, fatica e debolezza. In casi più gravi si può avere a che fare con stati di confusione e di agitazione, cambiamenti di personalità, attacchi epilettici, perdita di sensibilità o paralisi di alcune parti del corpo, debolezza muscolare, allucinazione, vista sdoppiata, percezione di odori disgustosi, difficoltà a parlare o d’udito, nausea e vomito, rigidità, pianto inconsolabile, difficoltà ad alimentarsi.
Per prevenire l’encefalite è necessario ridurre la probabilità di entrare in contatto con i germi e i parassiti che possono scatenarla. Le strategie da mettere in atto per farlo sono semplici:
– Seguire buone norme igieniche, lavando le mani bene e spesso con acqua e sapone, soprattutto dopo aver usato il bagno e prima e dopo i pasti.
– Non scambiare stoviglie, bottiglie e bicchieri con altre persone.
– Vaccinarsi contro i microbi che possono causare l’encefalite.
– Proteggersi dalle punture di insetti.
L’encefalopatia epatica è una condizione in cui il funzionamento del cervello peggiora a causa di una sopraggiunta incapacità del fegato di eliminare le sostanze tossiche presenti nel sangue.
Quando il fegato non è più in grado di smaltire le sostanze tossiche presenti nel sangue anche il funzionamento del cervello viene compromesso. La situazione che si instaura viene definita “encefalopatia epatica” e può essere sia una condizione acuta (in alcuni casi trattabile con successo), sia un problema cronico destinato a peggiorare progressivamente o a ripresentarsi a distanza di tempo. In entrambi i casi l’esito peggiore che si può attendere è il coma irreversibile, cui segue il decesso del paziente. L’incidenza del coma è pari all’80% dei pazienti, mentre le possibilità di recupero e di recidiva variano da paziente a paziente. Fra le possibili complicazioni sono incluse la formazione di ernie cerebrali o il rigonfiamento del cervello, il collasso cardiovascolare, l’insufficienza renale o respiratoria, la sepsi, oltre a un danneggiamento irreversibile del sistema nervoso che può dare luogo a problemi motori, sensoriali o mentali. Per questo se è nota o si sospetta la presenza di un problema al fegato è fondamentale contattare un medico nel caso in cui si manifestino problemi mentali o riconducibili al sistema nervoso.
La causa esatta dell’encefalopatia epatica non è conosciuta, ma è noto che si tratta di un fenomeno associato a problemi epatici come la cirrosi o l’epatite o a situazioni in cui il sangue non riesce a fluire nel fegato. In questi casi nel circolo sanguigno possono accumularsi le sostanze tossiche (ad esempio alcuni farmaci, ma anche l’ammonio prodotto dalla digestione delle proteine) che normalmente vengono rese innocue dal fegato e che potrebbero danneggiare il cervello. I problemi a livello cerebrale possono comparire improvvisamente in persone che non hanno ricevuto una diagnosi di problemi al fegato, ma è più frequente che riguardino pazienti affetti da patologie epatiche croniche. Fra le condizioni che possono scatenare l’encefalopatia sono incluse la disidratazione, un consumo eccessivo di proteine, anomalie nel bilancio degli elettroliti (in particolare il potassio) associate a episodi di vomito, a trattamenti come la paracentesi o all’assunzione di diuretici, infezioni, disfunzioni renali, cali dell’ossigeno, interventi chirurgici o di bypass e l’assunzione di farmaci che sopprimo il sistema nervoso centrale (come i barbiturici o le benzodiazepine).
I sintomi possono comparire lentamente e peggiorare progressivamente, ma in alcuni casi appaiono gravi sin dall’inizio. Dato che l’encefalopatia può portare a stati di incoscienza è importante che chi presta soccorso a chi ne soffre sia in grado di riportare la sintomatologia ai medici, tenendo conto che questa condizione può manifestarsi con alito dall’odore dolciastro o stantio, alterazione dei ritmi del sonno, problemi nei ragionamenti, lieve confusione, perdite e annebbiamenti della memoria, variazioni dell’umore o della personalità, difficoltà di concentrazione o scarsa capacità di giudizio e peggioramento della capacità di scrivere a mano o di compiere piccoli movimenti con le mani. Altri sintomi più gravi includono movimenti anomali di mani o braccia, agitazione, eccitazione o crisi epilettiche, disorientamento, sonnolenza o stato confusionale, comportamenti inadeguati o forti cambiamenti di personalità, ridotte capacità verbali e movimenti rallentati.
In caso di problemi epatici un trattamento adeguato aiuta a prevenire alcuni casi di encefalopatia. Per evitare l’insorgenza di patologie al fegato è consigliato evitare di esagerare con gli alcolici e non ricorrere all’assunzione di droghe per via venosa. Utile scaricarsi regolarmente, anche più volte al giorno, e una dieta povera di proteine.
DIAGNOSI
La diagnosi prevede sia l’analisi della presenza di sintomi riconducibili all’encefalopatia epatica, sia di indizi di problemi epatici, ad esempio ittero, asciti e un odore anomalo delle urine.
Fra le analisi che possono essere necessarie sono inclusi:
– Esami del sangue completi;
– CT o RM alla testa;
– Test della funzionalità epatica;
– Tempo di protrombina;
– Misurazione dei livelli di ammonio, di sodio, di potassio, di creatinina o di azoto ureico nel plasma.
TRATTAMENTO
L’encefalopatia epatica può diventare un’emergenza medica. Per questo è necessario il ricovero in ospedale, durante il quale verrà innanzitutto cercata la causa della condizione. In caso di sanguinamenti gastrointestinali sarà necessario bloccarli, così come sarà necessario trattare eventuali infezioni, insufficienze epatiche e anomalie nel bilancio elettrolitico.
Fondamentale è tenere l’intestino pulito, utilizzando lassativi (lattulosio) per bocca e clisteri.
Potrebbe essere necessario ricorrere a macchinari per la respirazione assistita o per aiutare la circolazione del sangue, soprattutto in caso di coma.
Quando l’encefalopatia è cronica e gli episodi sono ripetuti potrebbe essere necessario ridurre l’apporto proteico dell’alimentazione con l’aiuto di un esperto di nutrizione. In casi particolarmente critici potrebbe essere necessaria l’assunzione di alimenti speciali per endovena o con altre metodiche artificiali. Per ridurre la produzione di ammonio da parte dei batteri intestinali potrebbe essere necessario assumere neomicina, rifaximina o lattulosio, che aiuta anche ad eliminare il sangue eventualmente presente nell’intestino.
Se possibile, deve essere evitata l’assunzione di sedativi, tranquillanti e qualsiasi altro farmaco che deve essere metabolizzato dal fegato, così come i medicinali contenenti ammonio (inclusi alcuni antiacidi).
A seconda della condizione del paziente potrebbe essere necessario ricorrere all’assunzione di altri farmaci o ad altri trattamenti.
L’ ICTUS cerebrale è causato dell’improvvisa chiusura o rottura di un vaso cerebrale e dal conseguente danno alle cellule cerebrali dovuto dalla mancanza dell’ossigeno e dei nutrimenti portati dal sangue (ischemia) o alla compressione dovuta al sangue uscito dal vaso (emorragia cerebrale).
La caratteristica principale dell’ICTUS è la sua comparsa improvvisa, solitamente senza dolore.
Solo nell’emorragia cerebrale c’è spesso mal di testa. I sintomi tipici sono la comparsa improvvisa di una mancanza di forza, o formicolio e mancanza di sensibilità ad un braccio e ad una gamba, ma anche ad uno solo di questi. Possibile poi che vi sia difficoltà nel parlare o difficoltà nel vedere da un lato.
A volte questi sintomi compaiono solo per alcuni minuti, poi scompaiono completamente. Si parla in questi casi di attacchi ischemici transitori (TIA), che sono molto importanti, in quanto possono essere campanelli di allarme per un ICTUS vero e proprio. Devono essere considerati con la massima attenzione. Il paziente deve essere visto con urgenza dal medico.
La chisura dei vasi cerebrali può essere anche causata da emboli che partono da placche di aterosclerosi del collo (arterie, carotidi o vertebrali) e dal cuore o da aterosclerosi dei piccoli vasi all’interno del cervello.
Se le placche delle carotidi chiudono il vaso oltre il 70% è indicata la loro rimozione mediante intervento chirurgico.
DIAGNOSI
Per l’ictus ischemico od emorragico in fase acuta si provvede in emergenza/urgenza a:
– Inquadramento diagnostico (attraverso indagini specifiche come TC o RMN encefalo, Angio RM od Angio TC, Ecocolor – – Doppler TSA e Doppler Transcranico)
– Valutazione neurologica (scale neurologiche come la NIHSS e la Scala di Rankin modificata) e clinica generale.
TRATTAMENTO
Esiste una terapia per l’ischemia cerebrale che si può eseguire solo nelle prime 3 ore dopo l’evento.
Questa terapia, chiamata trombolisi, può riaprire l’arteria chiusa e salvare una parte del tessuto cerebrale colpito.
Il trigemino è il nervo che porta al cervello le informazioni percepite a livello del volto. Quando non funziona correttamente si può avere a che fare con la cosiddetta nevralgia del trigemino, una condizione dolorosa cronica in cui dolori lancinanti possono essere scatenati da stimolazioni molto lievi, come radersi, toccarsi il volto, masticare, bere, lavarsi i denti, parlare, truccarsi, sorridere, lavarsi la faccia o il vento che soffia sul volto. Inizialmente gli attacchi posso essere brevi e di lieve entità, ma con il tempo la situazione può peggiorare, gli attacchi farsi più frequenti e il dolore diventare sempre più lancinante. A soffrirne sono soprattutto le donne e le persone al di sopra dei 50 anni.
Spesso il malfunzionamento del trigemino è dovuto a una vena o un’arteria che entra in contatto con il trigemino alla base del cervello, premendo su di esso. Fra le cause sono inclusi l’invecchiamento, la sclerosi multipla o altre malattie che portano alla perdita della guaina mielinica che avvolge i nervi. Meno frequente è il caso in cui ad entrare in gioco sia la presenza di un tumore. Infine, alcune persone soffrono di nevralgia del trigemino a causa di una lesione cerebrale o di altre anomalie, ma non mancano nemmeno le situazioni in cui non è possibile individuare la causa alla base del disturbo.
I sintomi possono essere molto variabili e includono:
– fitte occasionali lievi
– episodi di dolore acuto simile a una scossa elettrica
– attacchi di dolore spontaneo
o scatenato da gesti come:
– toccarsi il volto
– masticare
– parlare
– lavarsi i denti
Il dolore può durare da pochi a diversi secondi e ripetersi per giorni, settimane, mesi o essere addirittura cronico. Inoltre può estendersi alle guance, mascella, denti, gengive, labbra e, meno spesso, agli occhi e alla fronte. Il dolore colpisce solo una parte del volto e con il tempo gli attacchi possono diventare più frequenti e più intensi.
L’ambliopia, conosciuta anche come “occhio pigro“, è una condizione che interessa il 4% della popolazione mondiale ed è caratterizzata da una riduzione più o meno marcata della capacità visiva di un occhio o, più raramente, di entrambi. In breve si può dire che dipende da un’alterata trasmissione del segnale nervoso tra l’occhio e il cervello per cui il cervello privilegia un occhio a causa della ridotta acuità visiva dell’altro.
Allo stato delle conoscenze attuali può essere trattata con possibilità di successo più o meno completo solo entro i primi 5-6 anni di vita.
Più frequentemente monolaterale, l’ambliopia può essere determinata da patologie oculari che, durante lo sviluppo dell’apparato visivo in età infantile (0-6anni), impediscono allo stimolo luminoso di raggiungere la retina (per esempio la cataratta in età pediatrica, molto spesso congenita).
Nella maggioranza dei casi, però, si presenta in occhi perfettamente integri dal punto di vista anatomico. In questi occhi risulta alterata la corretta stimolazione sensoriale dell’apparato visivo, molto spesso a causa di difetti di refrazione non corretti.
Le cause più comuni dell’ambliopia sono:
Lo strabismo, cioè un anomalo allineamento degli occhi, provocato da un difetto dei meccanismi neuro-muscolari che ne controllano i movimenti;
Cataratta congenita e ptosi palpebrale;
Anisometropia, cioè una differente refrazione tra i due occhi;
DIAGNOSI
I segnali e i sintomi dell’occhio pigro sono molto raramente riferiti dal paziente perché è spesso troppo piccolo per denunciare una vista inferiore in un occhio rispetto all’altro. E’ per questo motivo che si raccomanda di effettuare una prima visita oculistica al bambino, anche in assenza di sintomi, entro i 3-4 anni di età.
Attualmente vi è la tendenza ad anticipare ulteriormente la prima visita così che venga effettuata entro il primo anno di vita.
Anche se l’occhio pigro colpisce solitamente solo un occhio, esiste la possibilità che interessi entrambi gli occhi.
Il calazio è una cisti (o lipogranuloma) della palpebra che si forma a causa di una infiammazione cronica delle ghiandole che producono la componente lipidica delle lacrime, dette ghiandole del Meibomio.
Se di grosse dimensioni, un calazio può anche indurre astigmatismo per compressione sulla cornea.
Può essere sia un problema acuto, sia un problema cronico che causa dolore, eritema e gonfiore della palpebra. Può trasformarsi in un nodulo duro alla palpazione. Il nodulo può svilupparsi alla superficie cutanea (calazio sovratarsale) o, più spesso, alla superficie posteriore della palpebra (calazio sottotarsale). Il materiale purulento al suo interno può fuoriuscire, ma nel caso in cui rimanesse incistato deve essere rimosso chirurgicamente.
La formazione di un calazio può dipendere da costituzionalità, disordini alimentari, patologie del tratto intestinale (come la colite spastica) e stati ansiosi.
DIAGNOSI
Il sintomo tipico del calazio è un dolore sordo alla palpebra associato a una sensazione di pressione.
La cataratta è un’opacizzazione del cristallino, la lente indispensabile per mettere a fuoco le immagini sulla retina che si trova dietro alla parte colorata dell’occhio, l’iride.
In più del 95% dei casi la cataratta è associata all’invecchiamento e viene, perciò, detta senile.
Le cataratte giovanili, invece, hanno un’origine congenita o possono essere causate da farmaci, traumi e malattie agli occhi o sistemiche.
In genere l’opacizzazione è causata dall’aggregazione e dall’ossidazione delle proteine del cristallino, un processo noto e diffuso in tutto l’organismo che progredisce con l’invecchiamento. Per questo motivo il 90% degli individui di età superiore ai 75 anni soffre di cataratta. Altre possibili cause sono l’esposizione prolungata ai raggi ultravioletti, il diabete e il fumo.
Il sintomo principale è l’annebbiamento progressivo, a volte con abbagliamento alla luce frontale, sdoppiamento delle immagini e talvolta un iniziale curioso miglioramento della vista. Pertanto è consigliata una visita oculistica periodica oltre i 60 anni di età, anche in assenza di sintomatologia specifica.
DIAGNOSI
Le metodiche utilizzate per diagnosticare la Cataratta sono: esame biomicroscopico completo con lampada a fessura ed esame completo della refrazione e della acutezza visiva.
Se lo specialista ipotizza di intervenire chirurgicamente per curare questa malattia dell’occhio, possono essere prescritti altri esami quali: ecobiometria; biomicroscopia dell’endotelio corneale; ecografia bulbare; eventuali esami retinici (fluorangiografia – tomografia OCT); Topografia e tomografia corneale; campimetria computerizzata e pachimetria corneale; valutazione della motilità con visita ortottica.
Il cheratocono è una malattia degenerativa conseguente ad una minore rigidità strutturale della cornea.
Consiste in un progressivo sfiancamento del tessuto che si assottiglia e si estroflette all’apice assumendo la forma di un cono. In genere colpisce entrambi gli occhi, anche se spesso in misura diversa.
Nei casi più avanzati, quando l’assottigliamento estremo del tessuto corneale comporta un rischio imminente di perforazione, si pone l’indicazione al trapianto di cornea.
L’esordio e l’evoluzione della malattia sono molto variabili, si manifesta nell’infanzia o nella pubertà e progredisce in buona parte dei casi fino ai 35-40 anni, in alcuni soggetti può progredire anche oltre.
Sono frequenti associazioni con altre malattie come l’atopia (predisposizione ereditaria alle malattie allergiche), l’amaurosi congenita di Leber, distrofie corneali, trisomia 21 (mongolismo), malattia della tiroide, malattia del collagene (lassità dei legamenti articolari), ecc.
Le cause del cheratocono sono sconosciute, ma studi sperimentali hanno portato ad ipotizzare che alla sua base ci siano cause genetiche che ne condizionano l’insorgenza e fattori esterni come microtraumi da sfregamento o da allergie che ne condizionano l’evoluzione. L’aumento di alcuni enzimi specifici, fra cui le proteasi e una diminuzione dei loro inibitori, determina disequilibrio e alcune cellule della cornea, i cheratociti, che sono deputati al costante rinnovamento del tessuto, lavorano in modo anomalo, con conseguente riduzione dello spessore e degenerazione e deformità della cornea.
DIAGNOSI
Visione che con il progredire della malattia diviene progressivamente più sfuocata e scarsamente migliorabile con occhiali. Negli stadi più avanzati della malattia il deficit visivo è fortemente invalidante e difficilmente correggibile anche con lenti a contatto.
La congiuntivite può essere un disturbo acuto se persiste al massimo 4 settimane, o una malattia cronica.
DIAGNOSI
La congiuntivite può essere causata da germi (batteri, virus, miceti o protozoi), fattori tossici esterni o interni all’organismo, molecole che scatenato allergie, alcuni farmaci e alterazioni della secrezione lacrimale.
I sintomi sono rossore, bruciore, aumento della lacrimazione, fotofobia e secrezioni che nel caso della congiuntivite cronica durano oltre le 4 settimane e possono coinvolgere la cornea, che si presenta con la cheratite puntata superficiale.
Le forme virali sono associate anche a formazioni sferiche traslucide sulla congiuntiva (reazione follicolare) o, spesso, all’infiammazione dei linfonodi sottomandibolari e periauricolari.
Spesso, invece, le congiuntiviti allergiche sono associate a prurito, secrezioni acquose e rigonfiamento della palpebra. Le forme batteriche presentano secrezione purulenta.
Il glaucoma è una malattia cronica e progressiva che colpisce il nervo ottico e che può portare alla perdita della vista.
Il glaucoma, è la seconda causa di disabilità visiva e cecità in Italia: è dovuto all’aumento della pressione interna dell’occhio e in limitati casi alla riduzione dell’apporto di sangue al nervo ottico (il nervo responsabile della trasmissione delle informazioni visive al cervello). Un danno al nervo ottico si manifesta con una perdita del nostro campo visivo che inizia nelle porzioni più periferiche coinvolgendo progressivamente le porzioni centrali del campo visivo compromettendo notevolmente la vista.
L’occhio, per mantenersi tonico e sano, attiva al suo interno un ciclo costante di produzione e riassorbimento di acqua (umore acqueo). Quest’ultimo processo avviene a livello del trabecolato, porzione dell’occhio deputata appunto al deflusso dell’umore acqueo dall’intereno dell’occhio verso l’esterno dell’occhio attraverso il circolo sanguigno. Se il trabecolato riduce la sua funzione, rallentando il riassorbimento dell’acqua, si verifica un aumento della pressione all’interno dell’occhio che può causare un danno al nervo ottico e, di conseguenza, portare allo sviluppo del glaucoma.
In alcuni casi il nervo ottico si danneggia senza un aumento della pressione, probabilmente per una riduzione dell’apporto di sangue allo stesso nervo.
Esistono anche forme congenite di glaucoma possono, che si manifestano già alla nascita.
DIAGNOSI
Inizialmente, l’aumento della pressione non viene avvertito dal paziente con alcun sintomo. In seguito quando il nervo ottico inizia a danneggiarsi si iniziano a perdere le porzioni laterali del campo visivo. E’ quindi la visione laterale, superiore e inferiore, non quella centrale, a essere la prima a danneggiarsi; per questo il deficit può non essere rapidamente percepito dal paziente, che inizia ad urtare contro gli oggetti e ad avere difficoltà alla guida, senza accorgersi che sta perdendo porzioni laterali di campo visivo.
Tuttavia la progressione dei sintomi non è lineare e quando la malattia si aggrava si arriva a perdere anche la visione centrale modo rapidamente. In questa fase terminale le possibilità terapeutiche sono ridotte ed è per questo che i controlli oculistici periodici preventivi sono molto importanti.
Nella prima visita per un sospetto di glaucoma il paziente viene sottoposto ad alcuni esami strumentali:
• esame refrattivo per la prescrizione di lenti; esame del segmento anteriore dell’occhio e del fundus oculi;
• tonometria per misurare la pressione intraoculare; pachimetria per misurare lo spessore della cornea; gonioscopia per distinguere tra i vari tipi di glaucoma.
Lo specialista, esaminato il singolo caso clinico, potrà prescrivere esami più approfonditi quali: studio del campo visivo per valutare la sensibilità della retina; tomografia ottica a luce coerente (OCT) delle fibre nervose peripapillari o del segmento anteriore e della bozza filtrante per verificare lo spessore delle fibre nervose intorno al nervo ottico;
In alcuni casi particolari potrà essere richiesta anche l’esecuzione di ulteriori esami quali: test della sensibilità al contrasto e test dei colori; fluorangiografia per verificare la presenza di aree ischemiche periferiche in caso di glaucoma neovascolare; iridografia in caso di glaucoma uveitico e neovascolare.
TRATTAMENTO
Il glaucoma può essere trattato, almeno inizialmente, con una terapia medica farmacologica (colliri).
Quando questa non fosse sufficiente a ridurre la pressione oculare o il danno del campo visivo progredisca nonostante una riduzione della pressione si ricorre all’intervento chirurgico e in alcuni casi a trattamenti parachirurgici (laser).
L’ipermetropia è un difetto di refrazione per il quale la vista degli oggetti vicini risulta maggiormente sfocata rispetto a quelli lontani; a volte è possibile vedere nitidamente gli oggetti molto distanti nelle ipermetropie lievi, ma nel caso delle ipermetropie elevate anche questi risultano sfocati. La luce proveniente dagli oggetti, sia da quelli lontani sia da quelli più prossimi, non viene messa a fuoco perfettamente sulla retina, ma su un piano posto dietro ad essa.
Nell’ipermetropia lieve, finché si è giovani, l’occhio riesce a compensare il proprio difetto con il meccanismo naturale dell’accomodazione (cioè il potere di mettere a fuoco che ha il cristallino modificando la sua forma all’interno dell’occhio), ma verso i 40 anni questa capacità inizia a diminuire e allora si rendono necessarie le lenti correttive. I pazienti hanno la sensazione di un peggioramento visivo che sembra progressivo, in effetti tale difetto è congenito e con l’età è solo la capacità di compensarlo che viene meno. Per questo con l’avanzare dell’età va corretta con gli occhiali.
Per questo con l’avanzare dell’età non si è più in grado di compensare il deficit.
Le cause possibili della malattia sono tre: una curvatura corneale insufficiente, un cristallino mal formato o l’occhio troppo corto.
DIAGNOSI
L’ipermetrope ha difficoltà a guardare oggetti vicini, ha bisogno per questo di strizzare gli occhi per vedere chiaramente. Inoltre, il cristallino che tende a compensare il difetto è sottoposto a uno stress continuo del muscolo ciliare, che non è mai rilassato. Il passaggio naturale dalla visione di oggetti distanti e oggetti vicini determina, , un continuo aggiustamento. Non è raro che questo meccanismo dia vita a sintomi quali:
• bruciore;
• una più o meno intensa lacrimazione dell’occhio;
• dolori degli occhi e mal di testa, dopo la lettura, la scrittura, il lavoro al computer o lo svolgimento dei compiti con i bambini;
• ipersensibilità alla luce poiché i muscoli che governano lo spostamento del cristallino hanno la stessa inserzione di quelli che governano la regolazione della pupilla.
L’orzaiolo è la degenerazione con formazione di pus (necrosi suppurativa) delle ghiandole associate ad un follicolo pilifero ciliare.
L’orzaiolo si presenta come una formazione purulenta localizzata alla radice di un ciglio. Se è coinvolta una ghiandola di Zeiss (un tipo di ghiandola che produce grasso associata alle ciglia) l’orzaiolo si forma al bordo esterno della palpebra. Se, invece, è coinvolta una ghiandola del Meibomio (un altro tipo di ghiandola che produce la componente lipidica delle lacrime) l’orzaiolo si forma al bordo interno della palpebra.
In generale l’orzaiolo è dovuto a infezioni causate da batteri della famiglia degli stafilococchi. Spesso è una vera e propria complicazione di una blefarite stafilococcica.
DIAGNOSI
I sintomi caratteristici dell’orzaiolo sono il dolore alla palpebra, l’arrossamento e il rigonfiamento del suo bordo.
La patologia più comune delle vie lacrimali è l’ostruzione, che può essere congenita o acquisita nel corso del tempo. Un’infiammazione dei canali lacrimali può dar vita a una stenosi (un restringimento) della mucosa che li riveste, impedendo alle lacrime di defluire correttamente, determinando lacrimazione costante o infezione della via lacrimale dovuta al ristagno.
L’ostruzione delle vie lacrimali può essere congenita: si verifica nei casi di imperforazione della valvola di Hasner o nei casi più gravi dalla atresia della via lacrimale.
L’ostruzione acquisita è la più frequente: si verifica in caso di malattia infiammatoria cronica che interessa i dotti lacrimali ed è spesso associata e condizionata da patologie del massiccio facciale, deviazione del setto nasale o traumi facciali spesso legati a tumori che hanno interessato il volto.
Le cause dell’ostruzione delle vie lacrimali possono essere:
• Infezioni, acute o croniche
• Traumi
• Malformazioni
• Tumori
DIAGNOSI
I sintomi di una ostruzione delle vie lacrimali cambiano a secondo dell’ostacolo al deflusso delle lacrime e sono:
• Epifora, che significa la fuoriuscita più o meno abbondante delle lacrime con lacrimazione dell’occhio
• Congiuntivite ricorrente
• Dacriocistite (infezione delle vie lacrimali)
• Dilatazione del sacco lacrimale acuta con vero e proprio ascesso facciale (dacriocistite) o cronica (dacriocistocele)
La Retinopatia diabetica è una complicazione del diabete che colpisce gli occhi. È causata da un danno ai vasi sanguigni del tessuto della parte fotosensibile dell’occhio, la retina. Può svilupparsi in tutti coloro che soffrono di diabete di tipo 1 e di diabete di tipo 2. Nei pazienti che hanno il diabete da molti anni e nei casi in cui lo zucchero nel sangue è stato controllato a lungo male è più probabile il rischio di Retinopatia.
Esistono due tipi di Retinopatia.
La Retinopatia diabetica precoce anche nota come Retinopatia diabetica non proliferante (NPDR) può essere lieve, moderata o severa. Con l’avanzare della malattia le pareti dei vasi sanguigni si indeboliscono e vanno soggetti ai microaneurismi, piccoli rigonfiamenti che danneggiandosi danno vita a sanguinamenti. C’è poi il rischio che ci formi un accumulo di liquidi (edema) nella parte centrale della cornea (macula) che causa riduzione della vista.
Le Retinopatia diabetica proliferante (PDR) o avanzata è il tipo più grave perché coincide con la crescita anormale di nuovi vasi sanguigni a danno della retina. I neovasi sono stimolati anche dalla formazione di aree ischemiche nella retina. Ciò può provare il distacco della retina oppure un flusso anormale di liquidi nell’occhio che causano il glaucoma (link scheda malattia).
Il diabete, ancor più se controllato male, si associa ad un’anomala crescita di vasi sanguigni deboli, più soggetti a rottura o più piccoli e questo comporta una minore capacità di trasporto di ossigeno ai tessuti retinici. Generalmente la Retinopatia colpisce entrambi gli occhi.
DIAGNOSI
I sintomi della Retinopatia diabetica sono:
• macchie o fili scuri che galleggiano davanti agli occhi (miodesopsie)
• vista offuscata
• aree scure e perdita dell’acutezza visiva
• ipovisione
• difficoltà nella percezione dei colori
• cecità
La tiroide è una piccola ghiandola a forma di farfalla posta immediatamente sotto il pomo di Adamo, che gioca un ruolo chiave nel controllo del metabolismo mediante la produzione degli ormoni tiroidei (T4 e T3), sostanze che, tramite il sangue, raggiungono ogni distretto del nostro organismo. La funzione di questa ghiandola è regolata dall’ipofisi (una piccola ghiandola localizzata alla base del cranio), che agisce sulla tiroide mediante il “thyroid – stimulating hormone” (TSH). La corretta funzione della tiroide richiede un adeguato apporto di iodio, la cui carenza è responsabile della comparsa di gozzo semplice o nodulare.
Cos’è il carcinoma della tiroide? Il carcinoma della tiroide viene considerata una neoplasia rara in quanto costituisce il 2% di tutti i tumori. Si può manifestare a tutte le età, con massima incidenza tra i 25 e i 60 anni e con una maggiore prevalenza nel sesso femminile. Tali neoplasie sono invece molto rare nei bambini. La sopravvivenza è molto elevata, superando il 90% a 5 anni nelle forme differenziate.
I tumori della tiroide originano nella maggior parte dei casi dalle cellule follicolari (che compongono il tessuto tiroideo insieme alle cellule parafollicolari o C) e si distinguono in:
• carcinoma papillare: è la forma più frequente di carcinoma differenziato della tiroide (circa il 75%). Presenta una crescita lenta e può dare luogo a metastasi che interessano i linfonodi del collo. In alcuni pazienti il tumore è multifocale e può interessare entrambi i lobi della tiroide.
• carcinoma follicolare: rappresenta circa il 15% dei carcinomi differenziati della tiroide e può dare luogo a metastasi a distanza. Colpisce per lo più persone di età superiore ai 50 anni. – carcinoma anaplastico: è un tipo di tumore raro (1% dei tumori della tiroide) ma particolarmente aggressivo e di difficile gestione, in quanto dà metastasi a distanza molto precocemente.
• carcinoma midollare: origina dalle cellule parafollicolari (o cellule C) e si caratterizza per la presenza di elevati livelli circolanti di calcitonina. Tale tumore può avere un andamento familiare e può essere la manifestazione di sindromi genetiche quali la sindrome neoplastica multiple tipo 2 (MEN2).
DIAGNOSI
Quali sono i fattori di rischio per il carcinoma della tiroide? Un fattore di rischio accertato per il carcinoma differenziato della tiroide è l’esposizione a radiazioni. Il tumore della tiroide è infatti più comune in persone sottoposte a radioterapia sul collo per altre neoplasie o esposte a ricadute di materiale radioattivo come accaduto dopo l’esplosione della centrale nucleare di Cernobyl..
TRATTAMENTO
Quali sono i trattamenti per il carcinoma della tiroide?
Esistono vari tipi di trattamenti, che si possono dividere in chirurgici e non chirurgici.
Trattamenti chirurgici
In tutti i casi di carcinoma della tiroide, la chirurgia rappresenta la prima opzione terapeutica. Generalmente, in presenza di un tumore della tiroide viene eseguita di routine la tiroidectomia totale. La linfadenectomia del compartimento centrale è sempre eseguita in presenza di una carcinoma midollare, mentre in presenza di un carcinoma differenziato (follicolare o papillare) è eseguita solo se intraoperatoriamente si evidenziano linfonodi sospetti per metastasi o di dimensioni aumentate. Particolare attenzione viene dedicata anche al risultato estetico, grazie all’utilizzo di suture intradermiche con materiale riassorbibile e alla raccomandazione di massaggi postoperatori della ferita con creme dedicate per ridurre l’incidenza di cicatrici ipertrofiche.
Trattamenti non chirurgici
Dopo l’intervento di tiroidectomia è generalmente indicata l’ablazione del residuo tiroideo mediante iodio-131. Lo scopo della Terapia Radiometabolica con iodio 131 è distruggere il tessuto tiroideo normale che quasi sempre residua anche dopo una tiroidectomia totale ed eliminare eventuali microfocolai neoplastici presenti all’interno dei residui tiroidei o in altre sedi. Un secondo obiettivo di questa terapia è rendere più efficace il follow-up mediante il dosaggio della tireoglobulina sierica e l’eventuale esecuzione della scintigrafia total-body con iodio 131. La terapia radiometabolica può essere eseguita solamente in strutture autorizzate all’impiego terapeutico dello iodio 131 e deve essere eseguita in regime di “ricovero protetto”, in particolari stanze dedicate alla Medicina Nucleare. La terapia radiante e la chemioterapia sono infine indicate nel caso di tumori altamente aggressivi e inoperabili o in quelli caratterizzati da de-differenziazione.
Cosa succede dopo la fine delle terapie?
Il follow up è differenziato a seconda del tipo di carcinoma della tirodie che è stato trattato. Carcinoma differenziato della tiroide: i pazienti, trattati con ormone tiroideo (L-Tiroxina) ad un dosaggio tale da mantenere ridotti livelli di TSH, vengono periodicamente sottoposti ad ecografia del collo e alla determinazione dei livelli circolanti di TSH, FT4, FT3, anticorpi anti tireoglobulina e tireoglobulina (che costituisce un buon marker di malattia nel paziente tiroidectomizzato). In casi selezionati anche può essere indicato valutare la risposta della tireoglobulina dopo stimolo con TSH ricombinante umano o procedere ad una Scintigrafia totale corporea con I131. Carcinoma midollare della tiroide: dopo l’intervento i pazienti effettuano una terapia con ormone tiroideo (L-Tiroxina) al fine di ovviare all’ipotiroidismo conseguente alla rimozione della tiroide, e vengono periodicamente rivalutati previo dosaggio di TSH, FT4, FT3 e calcitonina.
I noduli tiroidei sono delle tumefazioni delimitate che si formano all’interno della tiroide, alterando il normale aspetto uniforme della ghiandola. Possono essere liquidi, solidi o misti. La maggior parte dei noduli è benigna e non determina alterazioni funzionali della tiroide. Sebbene siano spesso asintomatici, alcuni noduli tiroidei possono provocare effetti compressivi sulle strutture circostanti la ghiandola, determinando un senso di costrizione, difficoltà nella respirazione o nella deglutizione. Diverse le opzioni di trattamento disponibili, che dipendono dal tipo di nodulo.
I noduli tiroidei sono delle tumefazioni delimitate che si formano all’interno della tiroide. Possono essere liquidi, solidi o misti. Il riscontro di un nodulo alla tiroide è molto frequente soprattutto nelle donne e con l’avanzare dell’età.
La causa principale è rappresentata dalla carenza moderata-lieve di iodio che caratterizza il nostro Paese e che comporta una maggiore frequenza di gozzo che può essere diffuso, uni o multi nodulare. Va sottolineato che meno del 5% dei noduli è una neoplasia maligna della tiroide. Molto spesso i noduli alla tiroide sono asintomatici. In altri casi, però, può accadere che il nodulo vada a comprimere le strutture circostanti la tiroide determinando difficoltà nella respirazione o nella deglutizione e senso di costrizione.
La più efficace prevenzione dei noduli tiroidei è la iodoprofilassi, facilmente attuabile mediante il consumo di sale iodato.
DIAGNOSI
Per diagnosticare la presenza di noduli alla tiroide possono essere necessari:
Esami del sangue per valutare la funzione della tiroide, per effettuare il dosaggio degli anticorpi anti-tiroidei e per misurare la presenza di Calcitonina (marker di un raro tipo di carcinoma della tiroide).
Ecografia tiroidea, meglio se con color-doppler: con questa procedura diagnostica è possibile rilevare con precisione la presenza e le dimensioni dei noduli, il grado di vascolarizzazione e la loro struttura interna (solida, liquida, mista). Questo esame diagnostico viene utilizzato anche per monitorare i noduli nel tempo, per verificare ad esempio se aumentano di dimensioni.
Scintigrafia tiroidea è utile in specifici casi, ovvero nei pazienti con ipertiroidismo in cui si sospetti l’iperfunzione delle formazioni nodulari.
Agoaspirato del nodulo tiroideo: è un’indagine di secondo livello attraverso cui vengono prelevate dal nodulo alcune cellule che verranno poi sottoposte a esame citologico per chiarire la natura del nodulo stesso.
TRATTAMENTO
La terapia dei noduli tiroidei varia in base alla diagnosi effettuata. Si possono distinguere diversi casi: Quando la presenza del nodulo o dei noduli non provoca alcun disturbo (funzionalità normale della tiroide, esame citologico nella norma, noduli stabili nel tempo, assenza di disturbi locali) può essere indicato solo un monitoraggio periodico nel tempo.
In caso di noduli iperfunzionanti, ovvero che producono un eccesso di ormoni tiroidei, la terapia prevede: l’impiego di farmaci in grado di ridurre la produzione degli ormoni tiroidei da parte della tiroide; l’impiego della terapia radiometabolica medico-nucleare (radioiodio) in grado di ridurre la funzionalità dei noduli; la terapia chirurgica: asportazione della tiroide (tiroidectomia) che può essere parziale o totale.
Quando i noduli risultano benigni e normofunzionanti la terapia medica può prevedere in determinati casi (noduli non troppo voluminosi, soggetti giovani senza controindicazioni) la somministrazione dell’ormone tiroideo allo scopo di tenere il TSH (l’ormone che stimola la tiroide) a livelli più bassi del normale, con l’obiettivo di evitare la crescita e/o far ridurre le dimensioni del nodulo (sull’efficacia di questa terapia, tuttavia, è ancora aperto il dibattito nella comunità scientifica).
In caso di nodulo maligno il trattamento sarà chirurgico: la tiroidectomia (rimozione della tiroide) può essere parziale o totale, a seconda delle esigenze.
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