La calcolosi, detta anche litiasi, è una delle più comuni e antiche malattie delle vie urinarie. Tale patologia è caratterizzata dalla presenza di piccoli sassolini, calcoli appunto, lungo il decorso delle vie urinarie. La formazione di calcoli è la conseguenza del medesimo processo chimico che comporta la precipitazione dello zucchero nella tazzina di caffè: se una sostanza contenuta nelle urine è più concentrata del normale, dando origine alla cosiddetta sovra-saturazione, rischia di precipitare e formare cristalli che fondendosi tra loro nel fondo dei calici renali formano appunto i calcoli, dal latino calculus (sassolino). Questo non avviene nei soggetti sani perché nelle urine ci sono delle sostanze che contrastano in maniera efficace la cristallizzazione, fondamentalmente citrati.
I calcoli renali possono essere costituiti da varie componenti chimiche, singole o in combinazione:
Nel mondo occidentale la maggior parte dei calcoli è costituita da ossalato di calcio, rappresentano il 90% dei casi e sono radiopachi;
Meno frequenti ma sempre radioopachi sono quelli di fosfato di calcio;
Quelli di acido urico, sempre più frequenti, sono radiotrasparenti, cioè invisibili nelle radiografie standard ma non alla ecografia, presentano la caratteristica favorevole di sciogliersi completamente solo alcalinizzando le urine con una terapia medica senza dover ricorre alla chirurgia;
Quelli di cistina, assai rari, spesso si manifestano fin dall’infanzia in pazienti portatori di una condizione patologica ereditaria definita cistinuria; spesso causano calcolosi complesse, voluminose, molto dure e difficili da trattare;
Capitolo a parte meritano i calcoli generati dalle infezioni delle vie urinarie (fosfati tripli), provocati da batteri che producono una matrice proteica che facilita la precipitazione dei sali disciolti nelle urine.
La calcolosi urinaria è una patologia molto diffusa nel mondo occidentale, e in Italia in particolare. Si calcola che colpisca circa il 10% della popolazione maschile e il 5% della popolazione femminile. L’età con maggiore incidenza è quella compresa tra i 30 e i 50 anni. Le recidive sono molto frequenti, tanto da verificarsi in una percentuale che varia, a seconda degli studi, dal 25 al 50% dei casi dopo 5 anni. L’incidenza stimata in Italia è di circa 100.000 nuovi casi all’anno. Tra le cause, viene data molta importanza alla familiarità, a una dieta squilibrata e alla scarsa assunzione di liquidi.
La menopausa non è una malattia ma una condizione naturale della donna che segna l’interruzione della produzione ormonale e che si traduce nella cessazione definitiva del periodo mestruale dopo almeno 1 anno di assenza di mestruazione.
La menopausa segna la fine della vita riproduttiva naturale femminile. Avviene in media attorno ai 50 anni. Si definisce precoce quando insorge prima dei 40 anni. Durante la menopausa si riducono gli ormoni ovarici (estrogeni) e aumentano le gonadotropine prodotte dall’ipofisi (LH e prevalentemente FSH).
I sintomi della menopausa
I sintomi della menopausa comprendono i disturbi vasomotori (vampate di calore, sudorazioni notturne) e i disturbi del sonno, irritazione vaginale, prurito e irritazione vulvare, cefalea, irritabilità, disturbi dell’umore (ansia e depressione), senso di affaticamento, ridotta capacità di concentrazione, diminuzione della memoria, insonnia, dolori articolari, tensione mammaria, osteoporosi.
TRATTAMENTI
Trattamenti medici della menopausa
Il trattamento della menopausa può essere a base di terapia ormonale sostitutiva (estrogeni e/o progesterone) (TOS). Possono essere impiegate anche terapie alternative ma meno efficaci come i fitoestrogeni (molecole steroidee di origine vegetale), il tibolone (steroide sintetico) e molecole simil estrogeniche (SERMS) attive sul metabolismo dell’osso.
Nella maggior parte dei casi, il tumore alla vescica – l’organo che ha il compito di raccogliere l’urina filtrata dai reni – ha inizio nelle cellule, dette transizionali, le cellule cioè che compongono il suo rivestimento interno. Le cause di questo tumore non sono del tutto chiare, esiste però una relazione e ad esempio il fumo, le infezioni urinarie da parassiti, l’esposizione alle radiazioni o a sostanze chimiche. Questa neoplasia si presenta quando alcune cellule della vescica smettono di funzionare in modo corretto e cominciano a crescere e a dividersi in modo del tutto incontrollato, arrivando a formare il tumore. Esistono diversi tipi di tumori alla vescica:
• il carcinoma a cellule di transizione, il più diffuso, che nasce nelle cellule che compongono il rivestimento interno dell’organo;
• il carcinoma squamoso primitivo, più raro, che colpisce le cellule squamose e sembra particolarmente legato alle infezioni da parassiti
• l’adenocarcinoma, molto raro, che ha inizio nelle cellule delle ghiandole presenti nella vescica.
Tra i fattori che possono contribuire ad aumentare il rischio di tumore alla vescica ci sono:
• l’età: si tratta di un tumore raro prima dei 40 anni
• la razza: la bianca è più colpita delle altre
• il sesso: gli uomini sono considerati più a rischio
• il fumo, a causa delle sostanze chimiche che si accumulano nell’urina dei fumatori
• la familiarità: presenza di casi di tumore alla vescica in famiglia.
Non esiste una specifica strategia di prevenzione del tumore della vescica, se non la non esposizione ai suddetti fattori di rischio.
DIAGNOSI
Come si può diagnosticare il tumore alla vescica?
La diagnosi precoce e accurata del tumore della vescica è essenziale per quanto riguarda quella che potrà essere l’efficacia del trattamento: può servire ad ampliare le opzioni terapeutiche a disposizione e quindi ad aumentare, in generale, le probabilità di guarigione.
In caso di un sospetto tumore vescicale, l’esame di prima istanza è l’ecografia dell’apparato urinario, esame non invasivo che serve ad accertare l’esistenza del tumore ma anche a monitorare possibili recidive. Un altro esame in grado di verificare l’esistenza di un tumore alla vescica è l’esame citologico delle urine, che permette di individuare la presenza di eventuali cellule tumorali di origine vescicale. Va tenuto presente che le citologie urinarie si eseguono su tre campioni di urina prelevata al mattino. Si tratta di un esame altamente specifico ma poco sensibile.
A seguire, nella scala temporale degli esami c’è la cistoscopia, che è una procedura minimamente invasiva, ambulatoriale e consiste nell’introduzione di uno strumento sottile e flessibile (il citoscopio) nell’uretra in anestesia locale, con il quale il medico ispeziona visivamente l’uretra e la vescica; l’uro-Tac e l’urografia-RM, che forniscono al medico un corredo di strumenti diagnostici utili a valutare lo stato del paziente; la PET, tomografia a emissione di positroni che, attraverso il deposito di un radio farmaco nelle lesioni neoplastiche ne permette l’individuazione.
TRATTAMENTI
Come si può curare il tumore alla vescica?
L’efficacia del trattamento del tumore della vescica è dato dalla somma di molti fattori, tra cui la tipologia e lo stadio evolutivo del tumore, oltre che l’età e lo stato di salute del paziente. Il trattamento è principalmente di tipo chirurgico che può essere integrato da un trattamento medico o radioterapico.
Trattamento chirurgico
Si tratta del trattamento primario per il tumore della vescica. In base ai bisogni clinici dei paziente, la chirurgia del cancro della vescica prevedere in prima istanza l’asportazione del tumore dalla parete vescicale per via endoscopica (TUR-V), la procedura può essere integrata da instillazioni endovescicali di farmaci. In un secondo tempo , in base anzitutto al dato istologico e al successo o meno dei trattamenti endoscopici si prende in considerazione l’asportazione dell’intera vescica (cistectomia radicale). I pazienti sottoposti a cistectomia radicale sono candidati all’intervento di ricostruzione della vescica quando possibile o ad una derivazione esterna mediante sacchetto.
Trattamento medico
In relazione al tipo di tumore, può essere necessario dopo la TURV effettuare cicli di instillazione endovescicale di chemio o immunoterapici.
Per i pazienti con tumore in stato avanzato, che si è diffuso in altre sedi oltre la vescica, il medico può suggerire la chemioterapia sistemica, anche come unica opzione terapeutica. In casi selezionati, può risultare appropriata anche una combinazione di radioterapia e chemioterapia adiuvante dopo cistectomia.
Trattamento radioterapico
La radioterapia può essere effettuata anche in associazione alla chemioterapia o in sostituzione della chirurgia nei soggetti affetti da carcinoma vescicale e non operabili per comorbidità.
FAQ
Quali sono i sintomi del tumore alla vescica?
I sintomi del tumore alla vescica simili a quelli di altre malattie che colpiscono l’apparato urinario. Si va dalle presenza di sangue nelle urine alla sensazione di bruciore alla vescica quando di preme sull’addome, dalla difficoltà a urinare alla facilità con cui si contraggono infezioni.
Chi è a maggior rischio di contrarre tumore alla vescica?
Corrono maggiori rischio i fumatori e coloro che seguono un’alimentazione troppo ricca di fritture e grassi. Alcune categorie professionali sono più esposte di altre, come quelle dei lavoratori dell’industria tessile, dei coloranti, della gomma e del cuoio, che espongono le persone a sostanze pericolose, come le amine aromatiche e nitrosamine.
Quanto è diffuso il tumore alla vescica?
Il tumore alla vescica rappresenta circa il 3 per cento di tutti i tumori e colpisce in particolare gli uomini (tre volte di più delle donne) di età compresa tra i 60 e i 70 anni.
Le ovaie sono ghiandole interessate da una ciclica e intensa attività di produzione ovocitaria, legata alla vita riproduttiva della donna e soggetta agli effetti degli ormoni sessuali che influiscono sulla produzione e maturazione dei follicoli.
Le cisti ovariche sono le neoformazioni che si sviluppano a carico delle ovaie, i due organi dove sono contenuti e maturano i gameti femminili (ovociti), posti lateralmente all’utero e in connessione con esso attraverso le tube.
La maggior parte delle cisti che si formano all’interno delle ovaie sono legate proprio a questa cronica attività di produzione e maturazione follicolare. Dato che sono dovute alla funzione dell’ovaio, vengono definite cisti funzionali e classificate in: cisti follicolari o luteiniche a seconda della fase del ciclo mestruale in cui si sviluppano.
La formazione di cisti ovariche è un fenomeno molto frequente, che spesso non riveste nemmeno un carattere patologico, essendo legato al funzionamento delle ovaie. Si parla in questo caso di cisti funzionali che, quasi sempre, si riassorbono in modo spontaneo.
Le cisti funzionali, nella maggior parte dei casi non causano nessun problema alla donna, anche se di grandi dimensioni, spesso sono indolori e scompaiono all’arrivo del ciclo mestruale. In rari casi possono rompersi e causare dolore o complicazioni emorragiche, imponendo un trattamento tempestivo, a volte chirurgico.
Esistono poi cisti che non hanno un legame diretto con il ciclo mestruale, ma rappresentano vere e proprie neoformazioni dell’ovaio. Appartengono a questa categoria le cisti endometriosiche, i cistoadenomi sierosi o mucinosi e le cisti dermoidi.
Una condizione diversa è invece la sindrome dell’ovaio policistico. In questo caso, l’ovaio non presenta una vera e propria cisti, ma solo un numero di strutture follicolari (e quindi di ovociti) superiore alla media, con ripercussioni sulla regolarità del ciclo mestruale.
Gli endometriomi sono cisti causate dalla presenza di tessuto endometriale (il tessuto che normalmente si trova all’interno della cavità uterina) in sedi “anomale”, ossia diverse da quella fisiologica. Il cistoadenoma è un altro tipo di cisti che si sviluppa sul tessuto ovarico: può essere piena di muco (cistoma mucinoso) o siero (cistoma sieroso).
Le cisti ovariche benigne generalmente non danno sintomi e spesso sono destinate a scomparire spontaneamente. Tuttavia, se la cisti tende a ingrandirsi oppure se si tratta di una cisti di natura endometriosica, si possono manifestare diversi sintomi che includono:
Dolore o senso di peso pelvico, che si intensifica nel periodo intorno al ciclo mestruale.
Dolore durante i rapporti sessuali (dispareunia).
Minzione frequente, per la pressione della cisti sulla vescica.
Dolore o fastidio intestinale.
Febbre
Aumento di volume dell’addome
In alcuni casi le cisti, più di frequente le cisti dermoidi o i cistoadenomi, possono torcersi, causando una condizione di dolore acuto che può richiedere un intervento chirurgico urgente.
Infine, una cisti può rompersi, causando dolore acuto e sanguinamento nella cavità peritoneale, oppure può infettarsi con conseguente febbre, dolore addominale e alterazioni dell’alvo (diarrea).
La maggior parte delle cisti ovariche è benigna ma, soprattutto dopo i 40 anni e in età post-menopausale, le cisti possono essere di natura tumorale maligna o borderline.
La prevenzione delle cisti ovariche si attua sottoponendosi regolarmente alle visite ginecologiche di controllo.
È importante eseguire una visita specialistica con controllo ecografico, in presenza di sintomi di nuova insorgenza, come dolori pelvici, irregolarità del ciclo mestruale o aumento di volume dell’addome. L’utilizzo della pillola anticoncezionale permette una diminuzione del rischio di sviluppare una cisti ovarica.
DIAGNOSI
La diagnosi delle cisti ovariche si ottiene attraverso:
• Esame obiettivo ginecologico
• Ecografica pelvica trans vaginale o trans addominale. Si tratta dell’esame principale per la rilevazione di una cisti ovarica, per la determinarne della sua tipologia e per definirne la natura benigna o maligna.
• Laparoscopia. Tecnica chirurgica che, attraverso l’introduzione di una telecamera all’interno dell’addome, permette di diagnosticare e al tempo stesso asportare una neoformazione ovarica. Dosaggio plasmatico di markers specifici per le neoformazioni ovariche, come il CA 125 o il Ca19,9, sostanze che, quando presenti a livelli elevati nel sangue, possono far sospettare una natura maligna e dare quindi l’indicazione a un intervento chirurgico. L’utilizzo di questi markers presenta in realtà maggiori indicazioni nel follow-up di cisti già operate piuttosto che nell’iter diagnostico di partenza.
• TAC o Risonanza magnetica nucleare. In casi selezionati, per risolvere dubbi diagnostici sulla natura o sulla sede di una cisti.
TRATTAMENTI
Le cisti ovariche sono spesso indolori e innocue. Le cisti funzionali, le più frequenti, sono destinate a riassorbirsi nel giro di uno-due cicli mestruali. Se gli esami indicano la presenza di una cisti di natura benigna, ed essa è asintomatica, è necessario soltanto eseguire un monitoraggio ecografico periodico, per controllare aspetto e dimensioni della neoformazione.
In alcuni casi, lo specialista può prescrivere un contraccettivo orale che può permettere il riassorbimento o la riduzione volumetrica della cisti, ne riduce il rischio della formazione di nuove e lo sviluppo di un cancro ovarico.
La soluzione chirurgica si rende necessaria quando le cisti tendono ad aumentare di volume o presentano un cambiamento della loro morfologia, che può far sospettare la natura maligna o borderline della formazione. Può essere necessaria anche quando la presenza della cisti si associa a dolore pelvico o all’infertilità. L’intervento chirurgico può prevedere la semplice asportazione della cisti, oppure dell’intero ovaio, a seconda della natura della cisti, delle sue dimensioni e dell’età della paziente.
In presenza di cisti ovariche maligne può essere necessario asportare anche l’utero e l’ovaio contro laterale.
I fibromi (o miomi) uterini sono neoformazioni solide benigne che originano dal tessuto muscolare dell’utero. Rappresentano la neoplasia benigna femminile più frequente. Si calcola infatti che una donna su tre, dopo i 35 anni, sia portatrice di almeno un mioma.
I fibromi uterini possono essere singoli o multipli e svilupparsi verso la cavità uterina (fibromi sottomucosi o endocavitari), nello spessore della parete uterina (fibromi intramurali) o verso l’esterno dell’utero (fibromi sottosierosi). Le dimensioni di questi tumori benigni sono molto variabili: possono infatti andare da pochi millimetri fino a una grandezza pari a quella di un’anguria. Le cause alla base dello sviluppo dei fibromi non sono ancora chiare. Un ruolo di una certa importanza sembrerebbe però essere giocato dalla predisposizione genetica e da una successiva suscettibilità alla stimolazione ormonale.
La sintomatologia che accompagna i fibromi uterini dipende dalle dimensioni ma, soprattutto, dalla sede dei miomi. Spesso, infatti, fibromi anche di grosse dimensioni sono asintomatici. Altre volte, invece, un fibroma di piccole dimensioni, ma collocato, per esempio, all’interno della cavità endometriale, può portare a sintomi importanti.
I sintomi riportati dalle pazienti con maggior frequenza sono:
Mestruazioni abbondanti e/o ravvicinate (con conseguente anemizzazione).
Dismenorrea (ossia mestruazioni dolorose).
Dolore pelvico.
DIAGNOSI
La diagnosi di fibroma uterino viene effettuata attraverso la visita specialistica ginecologica abbinata all’ecografia trans vaginale e (se necessario) trans addominale.
TRATTAMENTI
Spesso i fibromi sono asintomatici: in questi casi il trattamento si basa sul monitoraggio periodico – mediante visita ginecologica ed ecografia – per controllarne le eventuali modificazioni di volume e di posizione. Quando, invece, i fibromi sono sintomatici, le possibilità di trattamento sono:
La terapia farmacologica:
• pillola contraccettiva estro/progestinica, progesterone naturale o farmaci progestinici. Questi farmaci non sono in grado di eliminare i fibromi, ma possono contrastare il loro accrescimento e, soprattutto, ridurre la quantità del flusso mestruale ed il dolore mestruale.
• Farmaci “analoghi del gn-rh”: si tratta di una iniezione mensile che, bloccando la produzione di ormoni femminili, crea una menopausa “transitoria”, che annulla i sintomi metrorragici e può portare a una certa diminuzione delle dimensioni del fibroma.
• Dal momento che i farmaci utilizzati risultano efficaci sui disturbi mestruali, ma spesso non sono in grado di bloccare la crescita dei fibromi e la maggior parte delle volte hanno un’efficacia temporanea (ovvero i sintomi ricompaiono una volta terminata la cura), il trattamento farmacologico viene utilizzato solo in casi specifici (ad esempio, per curare l’anemia provocata dai fibromi o come terapia preparatoria all’intervento chirurgico).
La terapia chirurgica: è volta all’asportazione dei fibromi. In base alla tipologia, alla grandezza e al numero dei fibromi da asportare possono essere impiegate diverse tecniche chirurgiche:
Laparoscopia: gli strumenti chirurgici e ottici per eseguire l’intervento vengono inseriti nella cavità addominale attraverso piccole incisioni, una sotto l’ombelico, le altre nella parte bassa dell’addome.
Laparotomia: l’intervento viene praticato attraverso un’ampia incisione della parete addominale.
Isteroscopia: l’intervento viene eseguito introducendo gli strumenti chirurgici in cavità uterina, attraverso la vagina. Questa tecnica permette l’asportazione dei fibromi a sviluppo endocavitario.
La chirurgia laparoscopica o laparotomica può essere utilizzata, oltre che in modo conservativo (miomectomia), anche in modo demolitivo, asportando cioè consensualmente alla patologia, tutto il viscere uterino (isterectomia). La scelta della via a cielo chiuso (laparoscopia) o aperto (laparotomia) dipende essenzialmente dalle dimensioni dei miomi.
Embolizzazione: è una tecnica radiologica, attraverso la quale si identifica l’arteria che “nutre” il fibroma e la si va a occludere, privando così il fibroma dell’apporto di sangue da cui trae nutrimento per crescere. La manovra comporta quindi una progressiva riduzione del volume dei fibromi stessi senza dover far ricorso all’intervento chirurgico. È una procedura che però non è percorribile per tutti i miomi e, spesso, durante la fase di riassorbimento del fibroma, crea dolore e perdite ematiche.
Questo tumore si sviluppa nelle ovaie, due piccoli organi situati a destra e a sinistra dell’utero che hanno la funzione di produrre gli ormoni sessuali femminili (estrogeni e progesterone) e le cellule riproduttive chiamate ovociti. Esistono forme benigne, intermedie (border line) e maligne di questo tipo di neoplasia.
Il tumore dell’ovaio viene spesso diagnosticato quando è già diffuso nell’addome. Solo nel 20% dei casi viene diagnosticato in uno stadio precoce, ossia quando ancora è limitato alle ovaie: questo perché i suoi sintomi non sono specifici, e possono essere facilmente scambiati per disturbi digestivi o dolori addominali di altra natura.
Le forme benigne hanno la caratteristica di non svilupparsi al di fuori delle ovaie e, quindi, di non produrre metastasi. Nel caso di tumori maligni, invece, le cellule tumorali possono andare a colpire anche i tessuti e gli organi adiacenti (nell’addome e nella regione pelvica) o lontani, attraverso il flusso sanguigno o il sistema linfatico.
Esistono tre tipi di tumore ovarico maligno:
Tumori epiteliali, che rappresentano circa l’85-90% del totale e si sviluppano dall’epitelio (sottile strato di tessuto che riveste le ovaie)
Tumori germinali, rari e più frequenti nelle giovani donne e nelle adolescenti, che si sviluppano dalle cellule deputate alla produzione di ovociti
Tumori dello stroma e dei cordoni sessuali, anch’essi rari, che originano dal tessuto di sostegno dell’ovaio, che produce gli estrogeni e il progesterone
I principali fattori di rischio di questo tumore sono:
Familiarità di malattia (5-10% dei casi)
storia familiare di tumore ovarico
associazione fra tumore ovarico e cancro della mammella (mutazione nei geni BRCA1 e BRCA2 del cancro alla mammella, che aumenta dal 10 al 30% il rischio di tumore alle ovaie);
sindrome di Lynch (HNPCC), che include carcinoma del colon non associato a poliposi, tumore dell’endometrio, dello stomaco, della mammella.
Fattori endocrini
sterilità, trattamento ormonale per l’infertilità, policistosi ovarica ed endometriosi (per alcuni istotipi), obesità, sembrano essere correlati ad un maggior rischio di sviluppo della malattia.
al contrario, multiparità (ossia aver avuto più di un figlio), allattamento al seno e prolungato impiego di contraccettivi estroprogestinici sembrano ridurre il rischio di sviluppare questo tipo di tumore.
Fattori ambientali
esposizione all’asbesto, al talco e all’alcool.
Non esiste, invece, alcuna correlazione fra lo sviluppo di questo tumore e l’abitudine al fumo o il consumo di caffeina.
DIAGNOSI
Sebbene non esista un esame attendibile per diagnosticare il tumore dell’ovaio, una serie di indagini possono aiutare il medico ad identificare la presenza della malattia, a partire dalla visita ginecologica.
Accanto all’esame clinico, indispensabile l’esecuzione di un’ecografia transvaginale, una metodica non invasiva ben tollerata dalle pazienti, utile per definire l’estensione locale della malattia (il medico inserisce nella vagina un piccola sonda per valutare l’utero sfruttando le onde sonore). Fondamentale inoltre un esame del sangue per valutare il dosaggio del CA125, proteina che risulta aumentata nella maggior parte dei tumori maligni dell’ovaio.
Le indagini strumentali utili per l’approfondimento diagnostico sono:
• TAC: è una metodica che utilizza radiazioni ionizzanti. Viene usata per la stadiazione della malattia e per l’identificazione di eventuali noduli peritoneali. • Risonanza Magnetica Nucleare (RMN): può essere richiesta in casi selezionati. E’ una metodica non invasiva, che non utilizza radiazioni ionizzanti. E’ in grado di valutare diverse strutture della pelvi e consente di definire in modo preciso la struttura delle masse tumorali.
• PET: identifica le cellule tumorali in attività e può essere utilizzata nel sospetto di recidiva di malattia.
• Chirurgia esplorativa: in casi selezionati, il medico può fare ricorso ad un intervento chirurgico allo scopo di confermare la diagnosi di cancro dell’ovaio. In questo modo può ispezionare dall’interno le cavità pelvica e addominale per stabilire la presenza del tumore, attraverso un’incisione piccola (laparoscopia) oppure più estesa (laparotomia). In presenza di tumore, il medico ne identifica la tipologia e ne verifica l’eventuale diffusione. Può anche asportare ed esaminare un numero variabile di campioni di tessuto (biopsie) provenienti dall’addome.
TRATTAMENTI
Il trattamento del tumore dell’ovaio avviene con un approccio multidisciplinare, che comprende chirurgia, chemioterapia e radioterapia. La terapia ormonale può essere un’alternativa nelle pazienti che non tollerano regimi citotossici.
Chirurgia
• Laparotomia – Attraverso un’incisione addominale il chirurgo asporta, nella maggioranza dei casi, le ovaie, l’utero, le tube di Falloppio, una piega di tessuto adiposo detta omento, l’appendice, ed eventualmente le ghiandole linfatiche adiacenti. Il chirurgo esegue inoltre delle biopsie mirate e preleva una piccola quantità di liquido addominale.
• Esame estemporaneo intraoperatorio – Permette di eseguire un’analisi microscopica dei tessuti (effettuata dall’anatomo patologo) in pochi minuti, consentendo al ginecologo di stabilire durante l’intervento se il tumore è maligno, aumentando così la capacità di eseguire la procedura chirurgica più appropriata ed evitando alla paziente un eventuale re-intervento.
• Laparoscopia con eventuale ausilio della chirurgia robotica – E’ una procedura mini-invasiva utilizzata in casi selezionati come nella ristadiazione del tumore dell’ovaio (rivalutazione della malattia dopo primo intervento incompleto), che prevede ad esempio l’asportazione di linfonodi e dell’utero. Questa procedura viene utilizzata, in casi selezionati e per alcuni tipi di neoplasia, anche nella terapia conservativa (ossia senza asportazione dell’apparato genitale nelle donne in età fertile) del tumore dell’ovaio negli stadi iniziali.
• La procedura laparoscopica e/o robotica viene utilizzata anche dopo un trattamento chemioterapico per asportare l’apparato genitale interno ed i tessuti eventualmente coinvolti (linfonodi, omento, appendice…);
Chemioterapia
Dopo l’intervento chirurgico è previsto un trattamento chemioterapico, in tutti gli stadi di malattia eccetto i più precoci. L’approccio standard prevede la combinazione di due agenti chemioterapici, un derivato del platino (carboplatino o cisplatino) e il paclitaxel, ripetuti per sei cicli a intervalli di tre settimane. Altri farmaci chemioterapici per il trattamento del cancro dell’ovaio sono il topotecan, la doxorubicina liposomiale pegilata, l’etoposide, la gemcitabina, la vinorelbina, la trabectedina, usati singolarmente o in associazione.
Radioterapia
La radioterapia consiste nell’uso di radiazioni ad alta energia per distruggere le cellule tumorali. Attualmente il suo utilizzo per il trattamento del cancro dell’ovaio è limitato in caso di recidiva o ripresa di malattia a distanza.
L’utero è l’organo dell’apparato femminile dove viene accolto e si sviluppa l’embrione nel corso della gravidanza. Ha la forma di un imbuto rovesciato ed è formato da due parti principali: l’estremità inferiore, chiamata collo o cervice, in diretto collegamento con la vagina, e la parte superiore chiamata corpo dell’utero, le cui pareti sono formate da tessuti molto diversi tra loro per forma e funzioni.
Nel corpo dell’utero il tessuto più superficiale, ricco di ghiandole e rivolto vero la cavità interna, è chiamato endometrio, mentre lo strato più esterno, indispensabile per “spingere fuori” il bambino al momento del parto, è di tipo muscolare e si chiama miometrio.
I cambiamenti ormonali che si verificano con il ciclo mestruale influenzano notevolmente la struttura dell’endometrio che dapprima si inspessisce per poter nutrire l’eventuale embrione in caso di gravidanza e in seguito, se la gravidanza non c’è, si degrada nel suo strato più interno e viene espulso attraverso la vagina, sotto forma di flusso mestruale.
Le cause e i fattori di rischio del tumore dell’endometrio non sono ancora del tutto chiare. Potrebbero rivestire un ruolo determinante i livelli di estrogeni nel sangue (ormoni femminili prodotti dalle ovaie).
Il tumore dell’endometrio è infatti più frequente in donne in cui esistono condizioni che tendono a creare una predominanza estrogenica (elevati livelli di estrogeni senza o con bassi livelli di progesterone), quali:
terapia sostitutiva estrogenica non bilanciata
obesità
diabete
sindrome dell’ovaio policistico
nulliparità (ossia non aver avuto figli)
menopausa tardiva
inizio precoce del ciclo mestruale
presenza di tumori che producono estrogeni
assenza di ovulazione.
Altri fattori di rischio possono essere l’età, il diabete e la sindrome di Lynch, malattia che predispone al tumore dell’utero, dell’ovaio, del colon e dello stomaco.
DIAGNOSI
Come per tutti i tumori, anche per il tumore dell’utero è fondamentale effettuare la diagnosi il più precocemente possibile.
La fase diagnostica prevede:
• valutazione accurata della storia clinica del paziente
• visita ginecologica completa di ecografia transvaginale: è una metodica non invasiva ben tollerata dalle pazienti. Il medico inserisce in vagina un piccola sonda per valutare l’utero sfruttando le onde sonore. Questo esame permette di valutare l’epitelio che riveste la cavità interna dell’utero (rima endometriale) che, se aumentato oltre determinati parametri, merita un approfondimento diagnostico.
• La biopsia endometriale dura pochi minuti e consiste nell’introdurre nell’utero uno strumento molto sottile e flessibile passando attraverso la vagina per prelevare alcune cellule con un semplice grattamento. Le cellule vengono aspirate dal tubicino dello strumento e in seguito analizzate al microscopio.
• La dilatazione con currettage consiste nel dilatare la cervice uterina per introdurre nell’utero uno speciale strumento capace di raschiare la parete interna dell’utero. L’esame dura circa un’ora e può richiedere una particolare sedazione oppure l’anestesia epidurale o generale.
• L’isteroscopia permette al medico di visualizzare le pareti interne dell’utero grazie a una telecamera posizionata all’estremità di un sottile strumento introdotto nell’utero attraverso la cervice e di prelevare anche campioni di tessuto da analizzare poi al microscopio.
TRATTAMENTI
La chirurgia rappresenta il principale trattamento per i tumori del corpo dell’utero (inclusi i sarcomi) e consiste nell’asportare corpo dell’utero e cervice (isterectomia) attraverso un’incisione nella parete addominale o passando attraverso la vagina. Quando il tumore ha invaso la cervice e i tessuti circostanti, si sceglie in genere l’isterectomia radicale che prevede anche l’asportazione dei tessuti attorno all’utero e della parte superiore della vagina adiacente alla cervice.
Nei casi più avanzati si procede a interventi più drastici con la rimozione dei linfonodi, delle tube e, in alcuni casi, anche delle ovaie.
La sopravvivenza è molto buona, raggiungendo quasi il 90% dopo cinque anni nelle forme diagnosticate in stadio iniziale. Le ricadute sono relativamente rare, tra il 3 e il 17% a seconda degli studi.
L’isterectomia è un intervento che implica la perdita della fertilità dal momento che senza l’utero è impossibile portare a termine una gravidanza. Nel caso di rimozione delle ovaie, inoltre, le donne ancora in età fertile vanno incontro anche a menopausa anticipata con tutti i suoi sintomi caratteristici (vampate, sudori notturni eccetera).
La radioterapia, ovvero la somministrazione di raggi ad alta energia in grado di uccidere le cellule malate, è un’altra opzione terapeutica che in alcuni casi può essere utilizzata nella cura dei tumori del corpo dell’utero. Ne esistono due tipi principali: la radioterapia esterna nella quale la radiazione arriva da una fonte posta all’esterno del paziente e quella interna o brachiterapia, che si basa invece sull’introduzione nell’utero di piccoli “semini” radioattivi che rilasciano radiazioni dall’interno.
In alcuni casi possono anche essere scelte la chemioterapia, basata soprattutto sull’uso di cisplatino, carboplatino, doxorubicina e paclitaxel somministrati in diverse combinazioni per via endovenosa, o la terapia ormonale che prevede invece la somministrazione di ormoni (ovviamente diversi da quelli usati nella terapia sostitutiva in menopausa) o di sostanze che bloccano gli ormoni.
Alcuni studi con l’anticorpo monoclonale herceptin mostrerebbero una efficacia di questa terapia nelle forme di cancro dell’endometrio associate alla presenza di mutazioni a carico del gene HER2.
Sono in corso studi che valutano l’importanza della presenza nel siero dell’anticorpo p53, che sembrerebbe associata alle forme più aggressive, che vanno quindi trattate più energicamente.
L’utero è l’organo dell’apparato femminile dove viene accolto e si sviluppa l’embrione nel corso della gravidanza. Ha la forma di un imbuto rovesciato ed è formato da due parti principali: la parte superiore chiamata corpo dell’utero e l’estremità inferiore detta collo o cervice.
La cervice uterina è in diretto collegamento con la vagina e può essere suddivisa in due parti dette endocervice (quella più vicina al corpo dell’utero) ed ectocervice (quella più vicina alla vagina). Le cellule che rivestono la cervice non sono tutte uguali: si parla infatti di cellule squamose nell’ectocervice e di cellule ghiandolari nell’endocervice, due tipi cellulari che si incontrano nella cosiddetta zona di transizione. La maggior parte dei tumori della cervice prende origine proprio da cellule che si trovano in questa zona “di confine”.
I tumori della cervice uterina sono classificati in base alle cellule da cui prendono origine e sono prevalentemente di due tipi: il carcinoma a cellule squamose (l’80% dei tumori della cervice) e l’adenocarcinoma (circa il 15%).
Si parla di carcinoma a cellule squamose quando il tumore deriva dalle cellule che ricoprono la superficie dell’esocervice e di adenocarcinoma quando invece il cancro parte dalle cellule ghiandolari dell’endocervice.
Infine, anche se meno comuni (3-5% dei tumori cervicali), esistono dei tumori della cervice che presentano un’origine mista e sono per questo definiti carcinomi adenosquamosi.
In base al sistema di classificazione FIGO 2009 (Federazione internazionale di ginecologia e ostetricia), il tumore della cervice uterina può essere diviso in quattro stadi a seconda di quanto risulta diffuso nell’organismo.
Stadio I: il tumore è confinato alla cervice uterina.
Stadio II: il tumore è arrivato alla parte posteriore dell’utero, ma non ha invaso la pelvi o la parte inferiore della vagina.
Stadio III: il tumore ha invaso la parte inferiore della vagina, la pelvi o i reni compromettendone il funzionamento.
Stadio IV: il tumore ha invaso gli organi vicini (vescica o retto) e può anche aver dato origine a metastasi in organi più lontani.
Le fasi iniziali del tumore cervicale sono in genere asintomatiche e i sintomi più comuni spesso possono essere legati ad altre patologie di tipo non tumorale. Tra i campanelli d’allarme che possono far sorgere il sospetto di tumore della cervice uterina ci sono, per esempio, perdite di sangue anomale (dopo un rapporto sessuale, tra due cicli mestruali o in menopausa), perdite vaginali senza sangue o dolore durante i rapporti sessuali.
Uno dei principali fattori di rischio per il tumore della cervice è l’infezione da HPV, il Papilloma virus umano, che si trasmette per via sessuale. Ecco perché alcune misure che limitano le possibilità di infezione (uso del profilattico o vaccinazione) risultano protettive contro questo tipo di cancro pur non essendo efficaci al 100%: il preservativo, per esempio, non protegge completamente dall’infezione dal momento che il virus può essere trasmesso anche attraverso il contatto di regioni della pelle non coperte dal profilattico. Al contrario, un inizio precoce dell’attività sessuale e partner sessuali multipli possono aumentare il rischio di infezione, così come un’insufficienza immunitaria che può essere legata a diverse cause (per esempio un’infezione da HIV – il virus dell’AIDS – o un precedente trapianto).
È comunque necessario ricordare che non tutte le infezioni da HPV provocano il cancro della cervice. La maggior parte delle donne che entrano in contatto con il virus, infatti, sono in grado di eliminare l’infezione grazie al proprio sistema immunitario senza successive conseguenze a livello di salute. Infine, è stato ormai accertato che solo alcuni degli oltre 100 tipi di HPV sono pericolosi dal punto di vista oncologico, mentre la maggior parte rimane silente o si limita a dare origine a piccoli tumori benigni detti papillomi e noti anche come verruche genitali.
Altri fattori che possono aumentare il rischio di tumore della cervice sono il fumo di sigaretta, la presenza in famiglia di parenti strette con questo tumore (anche se non sono stati identificati geni responsabili di una eventuale trasmissione ereditaria), una dieta povera di frutta e verdura, l’obesità e secondo alcuni studi, anche le infezioni da Clamidia e un alto numero di gravidanze. In quest’ultimo caso le ragioni dell’aumento del rischio osservato sono ancora in fase di studio.
DIAGNOSI
Il tumore delle cervice uterina può essere diagnosticato in fase molto iniziale o addirittura precancerosa se viene effettuato regolarmente lo screening con Pap-test.
Oggi i risultati del Pap-test sono espressi secondo la cosiddetta “classificazione di Bethesda” che tiene conto di alcuni parametri validi a livello internazionale, molto più precisi di quelli espressi dalla classificazione precedente. Il medico sarà quindi in grado di stabilire quanto aggressiva rischia di essere una eventuale alterazione precancersosa e stabilire con più efficacia la strategia di intervento.
Se il Pap-test è negativo, l’esame può essere ripetuto dopo tre anni, ma se vengono riscontrate anomalie il medico potrà prescrivere ulteriori esami, come per esempio la ricerca del DNA del virus del Papilloma umano (HPV) o la colposcopia. La presenza nelle cellule di DNA vuirale è un indice prognostico negativo, perché il virus è responsabile della trasformazione in senso canceroso delle cellule della cervice: si procederà quindi a ulteriori approfondimenti. La colposcopia che come il Pap-test dura pochi minuti, è indolore e viene eseguitao dal ginecologo in ambulatorio:, si basa sull’osservazione ravvicinata della cervice uterina grazie a uno speciale microscopio posto di fronte alla paziente e che permette anche di illuminare la regione da esaminare. Prima di procedere all’osservazione il ginecologo tratta la cervice con una soluzione a base di acido acetico che mette in risalto eventuali aree contenenti cellule anomale che possono essere direttamente prelevate con un apposito strumento e osservate al microscopio.
Una volta effettuata la diagnosi di cancro della cervice possono essere prescritti esami come tomografia computerizzata (TC), risonanza magnetica o tomografia a emissione di positroni (PET) per determinare con precisione l’estensione del tumore.
TRATTAMENTI
La scelta del trattamento da utilizzare per la cura del tumore della cervice dipende soprattutto dallo stadio della malattia al momento della diagnosi, ma si basa anche su altri criteri come per esempio, lo stato di salute generale della persona, la sua età e le sue esigenze. Spesso inoltre si procede combinando due o più trattamenti per raggiungere la massima efficacia.
La chirurgia è una delle scelte possibili e il tipo di intervento varia a seconda della diffusione della malattia. Negli stadi più precoci, quando il tumore è in una fase preinvasiva, possono essere utilizzate la criochirurgia o la chirurgia laser che utilizzano il freddo o un raggio laser per congelare o bruciare le cellule malate. Quando il tumore è un po’ più diffuso, ma ancora circoscritto a una area limitata della cervice, la scelta può ricadere sulla cosiddetta conizzazione, un intervento nel quale viene asportato un cono di tessuto in corrispondenza della lesione senza compromettere la funzione dell’organo e mantenendo aperta, per esempio, la possibilità di avere figli. Se invece il tumore è più esteso, si passa all’isterectomia, un intervento che prevede l’asportazione dell’utero, e in alcuni casi si può arrivare anche alla rimozione di organi adiacenti come linfonodi, tube e ovaie.
La radioterapia, che uccide le cellule tumorali con le radiazioni, è un trattamento valido in alcuni casi e del tutto indolore; inoltre le radiazioni possono colpire aree ben definite che comprendono l’utero, ma anche le zone adiacenti in caso di malattia diffusa. Oltre alla radioterapia tradizionale nella quale la fonte di radiazione èesterna, esiste oggi anche la brachiterapia, ovvero l’inserimento nell’utero di piccoli ovuli che emettono radiazioni. Sia la terapia esterna sia la brachiterapia mantengono intatto l’apparato riproduttivo e non modificano in molti casi la capacità di avere figli.
Una terza opzione per il trattamento del tumore della cervice, riservato però alle forme avanzate o invasive, è la chemioterapia: vengono somministrati per via endovenosa diversi farmaci contro il tumore, spesso combinati tra loro, tra i quali hycamtin, cisplatino, paclitaxel, topotecan eccetera.
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